Barletta Giuridica
Lavoro: i permessi ex art. 33, comma 3, della L. n. 104/1992
Un focus a cura della dott.ssa Floriana Dibenedetto (Giudice del Lavoro - Tribunale di Trani)
venerdì 2 giugno 2023
Fra i diversi benefici che la L. 104/1992 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) prevede a tutela della disabilità vi è quello disciplinato dall'art. 33 comma 3, che attribuisce ai lavoratori dipendenti, sia del settore pubblico che di quello privato, che assistano un disabile il diritto di fruire di tre giorni al mese di permessi retribuiti, coperti da contribuzione figurativa. I giorni di permesso possono essere fruiti continuativamente ovvero possono essere frazionati nel corso del mese; è consentita anche la fruizione ad ore del permesso.
Il diritto spetta, a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno in strutture pubbliche o private.
La platea dei soggetti che possono usufruire dei permessi si è estesa nel corso degli anni rispetto all'originario impianto normativo.
La norma è stata da ultimo modificata dal D.Lgs. n. 105 del 30.6.2022, che, in attuazione di una direttiva comunitaria e positivizzando alcune pronunce giurisprudenziali, ha riscritto l'intero comma 3.
I permessi possono attualmente essere richiesti dal coniuge, dalla parte di un'unione civile ai sensi dell'articolo 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76, dal convivente di fatto ai sensi dell'articolo 1, comma 36, della medesima legge, da un parente o affine entro il secondo grado. In caso di mancanza o decesso dei genitori o del coniuge o della parte di un'unione civile o del convivente di fatto, ovvero qualora gli stessi siano affetti da patologie invalidanti o abbiano compiuto i sessantacinque anni di età, il diritto è riconosciuto a parenti o affini entro il terzo grado della persona con disabilità in situazione di gravità.
Importante novità introdotta nel 2022 è la possibilità di ripartire il diritto fra più soggetti: il referente del disabile non deve essere necessariamente uno solo, ma il diritto può essere utilizzato in maniera alternata fra più soggetti che rientrino fra quelli innanzi elencati, fino ad un massimo di tre giorni mensili.
Il medesimo lavoratore ha poi diritto ad essere referente per più persone con disabilità (cumulando dunque i giorni di permesso), a condizione che si tratti del coniuge o della parte di un'unione civile o del convivente di fatto o di un parente o affine entro il primo grado o entro il secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con disabilità in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti. Dunque, ad esempio, il medesimo lavoratore ha diritto di fruire di sei giorni di permesso complessivi per assistere i genitori anziani con handicap grave ovvero il coniuge ed un genitore, etc…
La Corte di Cassazione ha anche chiarito che, sebbene il beneficio non possa essere concesso se il familiare è ricoverato in ospedali o strutture che garantiscano un'assistenza continuativa alla persona con handicap, non si può escludere che vi siano casi in cui il ricovero in case di riposo non garantisca un'assistenza continuativa dell'ospite; in tal caso permane il diritto alla fruizione dei permessi (cfr. Cass. n. 21416/2019).
Se i permessi ex L. n. 104/1992 sono un diritto per i lavoratori che assistano parenti disabili, è importante che tale diritto non si trasformi in abuso, in quanto il datore di lavoro, se non sopporta il costo dei permessi (che è a carico dell'INPS), tuttavia deve organizzare la propria attività di impresa in funzione dei permessi richiesti dai suoi dipendenti che ne abbiano diritto in maniera "sistematica".
L'assistenza al congiunto disabile non dà infatti sic et simpliciter diritto a lavorare per un numero inferiore di ore, coperte da contribuzione, ma ciò che la legge vuole garantire è consentire al disabile di avere assistenza, per un numero massimo di tre giorni al mese, anche durante l'orario di lavoro in cui il proprio congiunto dovrebbe invece prestare la propria attività lavorativa.
Ed allora, come ha affermato la Corte di Cassazione nel 2014 "Il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, si avvalga dello stesso non per l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l'ipotesi di abuso del diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro, come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente, ed integra, nei confronti dell'ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale" (cfr., in termini, Cass. n. 4984/2014).
Nel 2016 la Corte di Cassazione ha ulteriormente precisato che i permessi non possono essere utilizzati con una mera funzione compensativa delle energie impiegate dal dipendente per l'assistenza al congiunto, con la conseguenza che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari (vd. Corte di Cass. N. 17968/2016).
Ed infatti, mentre non è escluso che il lavoratore che usufruisce dei permessi risieda addirittura in un altro comune rispetto alla persona da assistere, tuttavia il comma 3 bis dell'art. 33 prevede che, se la distanza fra i due comuni sia superiore a 150 km, il lavoratore ha l'obbligo di attestare con titolo di viaggio, o altra documentazione idonea, il raggiungimento del luogo di residenza dell'assistito.
Dunque, l'assistenza al congiunto può avvenire nei tre giorni di permesso in diversi modi (assistenza fisica/materiale, ausilio per visite, svolgimento di adempimenti per l'assistito), ma deve comunque essere svolta un'attività in funzione dell'assistito, non potendo il lavoratore utilizzare quei giorni di permesso – ad esempio – per andare in vacanza (a meno che non porti con sé l'assistito).
E ciò in quanto anche durante i giorni di permesso maturano per il lavoratore le ferie, che potranno essere impiegate per il ripristino delle proprie energie psico-fisiche.
I tre giorni di permesso al mese possono essere fruiti anche direttamente dalla persona con handicap grave, che sia lavoratore dipendente (art. 33, comma 6). In tal caso, ha affermato la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 20243/2020, essi "sono riconosciuti al lavoratore portatore di handicap in ragione della necessità di una più agevole integrazione familiare e sociale, senza che la fruizione degli stessi debba essere necessariamente funzionale alle esigenze di cura".
Ciò significa che il lavoratore con handicap grave non può essere licenziato o subire sanzioni disciplinari se abbia fruito di permessi in un giorno in cui non si è sottoposto ad alcuna cura o visita medica, potendo egli in tali giorni svolgere qualsiasi attività.
dott.ssa Floriana Dibenedetto
Giudice del Lavoro
Tribunale di Trani
Il diritto spetta, a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno in strutture pubbliche o private.
La platea dei soggetti che possono usufruire dei permessi si è estesa nel corso degli anni rispetto all'originario impianto normativo.
La norma è stata da ultimo modificata dal D.Lgs. n. 105 del 30.6.2022, che, in attuazione di una direttiva comunitaria e positivizzando alcune pronunce giurisprudenziali, ha riscritto l'intero comma 3.
I permessi possono attualmente essere richiesti dal coniuge, dalla parte di un'unione civile ai sensi dell'articolo 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76, dal convivente di fatto ai sensi dell'articolo 1, comma 36, della medesima legge, da un parente o affine entro il secondo grado. In caso di mancanza o decesso dei genitori o del coniuge o della parte di un'unione civile o del convivente di fatto, ovvero qualora gli stessi siano affetti da patologie invalidanti o abbiano compiuto i sessantacinque anni di età, il diritto è riconosciuto a parenti o affini entro il terzo grado della persona con disabilità in situazione di gravità.
Importante novità introdotta nel 2022 è la possibilità di ripartire il diritto fra più soggetti: il referente del disabile non deve essere necessariamente uno solo, ma il diritto può essere utilizzato in maniera alternata fra più soggetti che rientrino fra quelli innanzi elencati, fino ad un massimo di tre giorni mensili.
Il medesimo lavoratore ha poi diritto ad essere referente per più persone con disabilità (cumulando dunque i giorni di permesso), a condizione che si tratti del coniuge o della parte di un'unione civile o del convivente di fatto o di un parente o affine entro il primo grado o entro il secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con disabilità in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti. Dunque, ad esempio, il medesimo lavoratore ha diritto di fruire di sei giorni di permesso complessivi per assistere i genitori anziani con handicap grave ovvero il coniuge ed un genitore, etc…
La Corte di Cassazione ha anche chiarito che, sebbene il beneficio non possa essere concesso se il familiare è ricoverato in ospedali o strutture che garantiscano un'assistenza continuativa alla persona con handicap, non si può escludere che vi siano casi in cui il ricovero in case di riposo non garantisca un'assistenza continuativa dell'ospite; in tal caso permane il diritto alla fruizione dei permessi (cfr. Cass. n. 21416/2019).
Se i permessi ex L. n. 104/1992 sono un diritto per i lavoratori che assistano parenti disabili, è importante che tale diritto non si trasformi in abuso, in quanto il datore di lavoro, se non sopporta il costo dei permessi (che è a carico dell'INPS), tuttavia deve organizzare la propria attività di impresa in funzione dei permessi richiesti dai suoi dipendenti che ne abbiano diritto in maniera "sistematica".
L'assistenza al congiunto disabile non dà infatti sic et simpliciter diritto a lavorare per un numero inferiore di ore, coperte da contribuzione, ma ciò che la legge vuole garantire è consentire al disabile di avere assistenza, per un numero massimo di tre giorni al mese, anche durante l'orario di lavoro in cui il proprio congiunto dovrebbe invece prestare la propria attività lavorativa.
Ed allora, come ha affermato la Corte di Cassazione nel 2014 "Il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, si avvalga dello stesso non per l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l'ipotesi di abuso del diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro, come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente, ed integra, nei confronti dell'ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale" (cfr., in termini, Cass. n. 4984/2014).
Nel 2016 la Corte di Cassazione ha ulteriormente precisato che i permessi non possono essere utilizzati con una mera funzione compensativa delle energie impiegate dal dipendente per l'assistenza al congiunto, con la conseguenza che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari (vd. Corte di Cass. N. 17968/2016).
Ed infatti, mentre non è escluso che il lavoratore che usufruisce dei permessi risieda addirittura in un altro comune rispetto alla persona da assistere, tuttavia il comma 3 bis dell'art. 33 prevede che, se la distanza fra i due comuni sia superiore a 150 km, il lavoratore ha l'obbligo di attestare con titolo di viaggio, o altra documentazione idonea, il raggiungimento del luogo di residenza dell'assistito.
Dunque, l'assistenza al congiunto può avvenire nei tre giorni di permesso in diversi modi (assistenza fisica/materiale, ausilio per visite, svolgimento di adempimenti per l'assistito), ma deve comunque essere svolta un'attività in funzione dell'assistito, non potendo il lavoratore utilizzare quei giorni di permesso – ad esempio – per andare in vacanza (a meno che non porti con sé l'assistito).
E ciò in quanto anche durante i giorni di permesso maturano per il lavoratore le ferie, che potranno essere impiegate per il ripristino delle proprie energie psico-fisiche.
I tre giorni di permesso al mese possono essere fruiti anche direttamente dalla persona con handicap grave, che sia lavoratore dipendente (art. 33, comma 6). In tal caso, ha affermato la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 20243/2020, essi "sono riconosciuti al lavoratore portatore di handicap in ragione della necessità di una più agevole integrazione familiare e sociale, senza che la fruizione degli stessi debba essere necessariamente funzionale alle esigenze di cura".
Ciò significa che il lavoratore con handicap grave non può essere licenziato o subire sanzioni disciplinari se abbia fruito di permessi in un giorno in cui non si è sottoposto ad alcuna cura o visita medica, potendo egli in tali giorni svolgere qualsiasi attività.
dott.ssa Floriana Dibenedetto
Giudice del Lavoro
Tribunale di Trani