Cronaca
Nuovi scenari sulla morte di Marisa Scopece
Fu lei stessa a disfarsi dei cellullari?. La sua morte risalirebbe all’8 settembre 2007
Barletta - martedì 29 gennaio 2013
Per la Corte d'Assise d'Appello di Bari Marisa Scopece, la foggiana di 23 anni trovata ammazzata l'11 settembre 2007, a Barletta, in un tratturo nei pressi della Madonna dello Sterpeto di Barletta non fu uccisa il 6 settembre, data in cui i suoi due cellulari smisero di funzionare, ma l'8 settembre. Questo uno dei passi salienti delle motivazioni della sentenza di secondo grado che il 17 giugno dello scorso anno ha assolto con formula piena i presunti assassini: Giuseppe Gallone di 37 anni, il cugino Raimondo Carbone di 38 anni, ed Emanuele Modesto, anch'egli 38enne; tutti di Trinitapoli.
Il 29 Aprile 2011 la Corte d'Assise di Trani aveva, invece, condannato i primi due a 30 anni di carcere ed il terzo a 27 per omicidio premeditato, distruzione di cadavere, rapina ed illecita detenzione di una pistola.
Nella sentenza di secondo grado i giudici smontano e criticano diversi passi dell'indagine condotta dalla Polizia e coordinata dalla Procura della Repubblica di Trani, intravedendo anche scenari alternativi. Come ad esempio l'ipotesi che possa esser stata Marisa, il 6 settembre, a disfarsi volontariamente i suoi telefonini (che dunque non le sarebbero stati rapinati) perché da tempo minacciata. La Corte barese non sposa nessuna certezza ritenuta dai giudici di primo grado. Nemmeno sul giorno della morte di Marisa, nota come la ragazza del cuore alato per via di un tatuaggio su fondoschiena grazie al quale le fu data identità. I giudici di secondo grado hanno palesato censure sui risultati dei tabulati telefonici; sull'arma del delitto che poi avrebbe fatto fuoco per un duplice tentato omicidio a Trinitapoli; sulla circostanza che uno dei tre imputati abbia acquistato una Porsche coi soldi (tra i 20 ed i 30mila euro) che Marisa avrebbe portato sempre con sé e ritenuti provento della lunga attività di prostituzione; sugli eventuali collegamenti tra il luogo dove fu ritrovato il cadavere ed un calzaturificio barlettano dove lavoravano (o avevano lavorato) due dei tre imputati accusati dell'omicidio.
I giudici baresi hanno censurato finanche la genericità del capo d'imputazione che non individuava le singole condotte addebitate, indistintamente, ai tre imputati ed hanno parlato espressamente di "incomprensibile negligenza degli inquirenti" per l'impossibilità di comparare il DNA della vittima con quella dei presunti assassini".
Il 29 Aprile 2011 la Corte d'Assise di Trani aveva, invece, condannato i primi due a 30 anni di carcere ed il terzo a 27 per omicidio premeditato, distruzione di cadavere, rapina ed illecita detenzione di una pistola.
Nella sentenza di secondo grado i giudici smontano e criticano diversi passi dell'indagine condotta dalla Polizia e coordinata dalla Procura della Repubblica di Trani, intravedendo anche scenari alternativi. Come ad esempio l'ipotesi che possa esser stata Marisa, il 6 settembre, a disfarsi volontariamente i suoi telefonini (che dunque non le sarebbero stati rapinati) perché da tempo minacciata. La Corte barese non sposa nessuna certezza ritenuta dai giudici di primo grado. Nemmeno sul giorno della morte di Marisa, nota come la ragazza del cuore alato per via di un tatuaggio su fondoschiena grazie al quale le fu data identità. I giudici di secondo grado hanno palesato censure sui risultati dei tabulati telefonici; sull'arma del delitto che poi avrebbe fatto fuoco per un duplice tentato omicidio a Trinitapoli; sulla circostanza che uno dei tre imputati abbia acquistato una Porsche coi soldi (tra i 20 ed i 30mila euro) che Marisa avrebbe portato sempre con sé e ritenuti provento della lunga attività di prostituzione; sugli eventuali collegamenti tra il luogo dove fu ritrovato il cadavere ed un calzaturificio barlettano dove lavoravano (o avevano lavorato) due dei tre imputati accusati dell'omicidio.
I giudici baresi hanno censurato finanche la genericità del capo d'imputazione che non individuava le singole condotte addebitate, indistintamente, ai tre imputati ed hanno parlato espressamente di "incomprensibile negligenza degli inquirenti" per l'impossibilità di comparare il DNA della vittima con quella dei presunti assassini".