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Altri sport
Sport&Doping: per l'avvocato Cascella «una piaga da reprimere, serve educazione»
Viaggio in una delle problematiche dell'agonismo internazionale
Barletta - giovedì 27 febbraio 2014
16.42
Demone raramente debellato e spesso ignorato, il doping resta un grande problema dello sport e i Giochi Olimpici di Sochi hanno rappresentato un'occasione per parlarne ad ampio raggio: noi l'abbiamo fatto con l'avvocato-esperto in diritto sportivo- Angelo Cascella (nella foto con Giovanni Trapattoni, Marco Tardelli e Dino Baggio), barlettano, membro del Tribunale Arbitrale Sportivo (T.A.S.) di Losanna e docente presso le università di Madrid e Birmingham.
Avvocato Cascella, spesso si pensa al doping come un fenomeno associato solo ad alcuni sport come calcio o ciclismo, ma in realtà vediamo che il problema è diffuso a macchia d'olio?
«Molti associano il doping agli sport di fatica, come il ciclismo, la pesistica o l'atletica leggera, dove molto lavoro è basato sulla forza. All'alba degli anni 2000, dopo le parole di Zeman e l'invito a tenere fuori "le farmacie dal calcio", ci furono le indagini del Pm Guariniello che portarono alla chiusura del laboratorio dell'Acquacetosa a Roma: quando esso riaprì, improvvisamente furono trovati 11 casi di nandrolone nel calcio, con il coinvolgimento di atleti di serie A come Davids, Fernando Couto, Bucchi e Caccia. Il Coni fa circa 9000 controlli all'anno e tra questi il 2% è trovato in stato di positività, spesso alla cannabis. Guardando alle direttive della Wada, che delega agli stati la fase sanzionatoria, i dati parlano invece di circa il 30% di atleti dopati. Basti pensare che dei 10 migliori tempi mondiali sui 100 metri nell'atletica leggera, 8 sono detenuti da atleti che prima o poi sono stati trovati in stato di positività».
In ultimo abbiamo assistito al caso che ha riguardato l'azzurro del bob a Sochi 2014, William Frullani. Demoni come emo-trasfusione, ormone della crescita, sono ancora ben radicati nello sport?
«Sicuramente sì. Purtroppo le persone di rottura spesso vengono messe da parte dal sistema, che ha una potenza economica e degli interessi notevoli. Spesso le società hanno investito negli acquisti di medicinali sospetti, e con esse anche le stesse federazioni. La stessa Juventus, ad esempio, è stata riconosciuta colpevole dalla Cassazione dell'illecita somministrazione di farmaci: allora fu dichiarata al tempo stesso la prescrizione del reato. Qui però spesso dimentichiamo un fattore fondamentale: il doping uccide. Nei casi meno gravi, ci sono alterazioni ormonali o disfunzioni dell'organismo. Quindi l'atleta è da un lato vittima e dall'altro attore principale di questa cosa: io non ho pena per chi cerca di vincere barando, è un truffatore».
Le federazioni negli anni hanno allargato effettivamente il fronte della formazione e della lotta al doping?
«Io credo che di lotta ce ne sia davvero poca. Se vogliamo intervenire, dobbiamo farlo a livello politico: alcune nazioni come Francia e Spagna hanno misure molto blande. C'è un prodotto, come la camera iperbarica, che in Italia è vietata, e che permette al fisico di simulare un allenamento in alta quota. Ci sono sanzioni irrisorie: tanti ciclisti, ad esempio, prendono la residenza in Svizzera. Ci sono zone franche che solo un accordo tra stati potrebbe debellare: nel passato le analisi erano eseguite dalla stessa federazione e spesso in occasione dell'evento il doping era stato smaltito. Una proposta efficace è il passaporto biologico utilizzato dall'UCI, che ha limitato molto ove applicato i casi di doping: è una sorta di marcatura dell'atleta, anche in fase di riposo. Il ciclista deve comunicare i suoi spostamenti ed essere sempre disponibile per i controlli: occorre quindi mettersi d'accordo tra federazioni. Da un lato, però, la voglia di realizzare un buon risultato e le spinte delle grandi case farmaceutiche sono deterrenti alla lotta».
Ma il doping esiste solo sul piano agonistico? E c'è modo di debellare questa piaga?
«Assolutamente no, ormai è diffuso anche tra i dilettanti piuttosto che tra i frequentatori di palestre. L'anno scorso il Nas ha sottoposto a sequestro 850mila fiale dopanti. Ormai, però, bisogna "lottare" anche contro la tecnologia, che ci porta a lottare sul millesimo di secondo. E' un fenomeno in evidente espansione, ci sono stati casi stranissimi che al Tas di Losanna abbiamo affrontato. Gli alti costi necessari per effettuare le analisi mediche, i pochi controlli, la difficoltà nel riscontrare sostanze dopanti nel corpo e infine le sanzioni irrisorie spesso comminate rendono di fatto difficile combattere una piaga che avrebbe bisogno di una battaglia educativa seria ed aggressiva».
(Twitter: @GuerraLuca88)
Avvocato Cascella, spesso si pensa al doping come un fenomeno associato solo ad alcuni sport come calcio o ciclismo, ma in realtà vediamo che il problema è diffuso a macchia d'olio?
«Molti associano il doping agli sport di fatica, come il ciclismo, la pesistica o l'atletica leggera, dove molto lavoro è basato sulla forza. All'alba degli anni 2000, dopo le parole di Zeman e l'invito a tenere fuori "le farmacie dal calcio", ci furono le indagini del Pm Guariniello che portarono alla chiusura del laboratorio dell'Acquacetosa a Roma: quando esso riaprì, improvvisamente furono trovati 11 casi di nandrolone nel calcio, con il coinvolgimento di atleti di serie A come Davids, Fernando Couto, Bucchi e Caccia. Il Coni fa circa 9000 controlli all'anno e tra questi il 2% è trovato in stato di positività, spesso alla cannabis. Guardando alle direttive della Wada, che delega agli stati la fase sanzionatoria, i dati parlano invece di circa il 30% di atleti dopati. Basti pensare che dei 10 migliori tempi mondiali sui 100 metri nell'atletica leggera, 8 sono detenuti da atleti che prima o poi sono stati trovati in stato di positività».
In ultimo abbiamo assistito al caso che ha riguardato l'azzurro del bob a Sochi 2014, William Frullani. Demoni come emo-trasfusione, ormone della crescita, sono ancora ben radicati nello sport?
«Sicuramente sì. Purtroppo le persone di rottura spesso vengono messe da parte dal sistema, che ha una potenza economica e degli interessi notevoli. Spesso le società hanno investito negli acquisti di medicinali sospetti, e con esse anche le stesse federazioni. La stessa Juventus, ad esempio, è stata riconosciuta colpevole dalla Cassazione dell'illecita somministrazione di farmaci: allora fu dichiarata al tempo stesso la prescrizione del reato. Qui però spesso dimentichiamo un fattore fondamentale: il doping uccide. Nei casi meno gravi, ci sono alterazioni ormonali o disfunzioni dell'organismo. Quindi l'atleta è da un lato vittima e dall'altro attore principale di questa cosa: io non ho pena per chi cerca di vincere barando, è un truffatore».
Le federazioni negli anni hanno allargato effettivamente il fronte della formazione e della lotta al doping?
«Io credo che di lotta ce ne sia davvero poca. Se vogliamo intervenire, dobbiamo farlo a livello politico: alcune nazioni come Francia e Spagna hanno misure molto blande. C'è un prodotto, come la camera iperbarica, che in Italia è vietata, e che permette al fisico di simulare un allenamento in alta quota. Ci sono sanzioni irrisorie: tanti ciclisti, ad esempio, prendono la residenza in Svizzera. Ci sono zone franche che solo un accordo tra stati potrebbe debellare: nel passato le analisi erano eseguite dalla stessa federazione e spesso in occasione dell'evento il doping era stato smaltito. Una proposta efficace è il passaporto biologico utilizzato dall'UCI, che ha limitato molto ove applicato i casi di doping: è una sorta di marcatura dell'atleta, anche in fase di riposo. Il ciclista deve comunicare i suoi spostamenti ed essere sempre disponibile per i controlli: occorre quindi mettersi d'accordo tra federazioni. Da un lato, però, la voglia di realizzare un buon risultato e le spinte delle grandi case farmaceutiche sono deterrenti alla lotta».
Ma il doping esiste solo sul piano agonistico? E c'è modo di debellare questa piaga?
«Assolutamente no, ormai è diffuso anche tra i dilettanti piuttosto che tra i frequentatori di palestre. L'anno scorso il Nas ha sottoposto a sequestro 850mila fiale dopanti. Ormai, però, bisogna "lottare" anche contro la tecnologia, che ci porta a lottare sul millesimo di secondo. E' un fenomeno in evidente espansione, ci sono stati casi stranissimi che al Tas di Losanna abbiamo affrontato. Gli alti costi necessari per effettuare le analisi mediche, i pochi controlli, la difficoltà nel riscontrare sostanze dopanti nel corpo e infine le sanzioni irrisorie spesso comminate rendono di fatto difficile combattere una piaga che avrebbe bisogno di una battaglia educativa seria ed aggressiva».
(Twitter: @GuerraLuca88)