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Scorre e non si coagula “Sangue del mio Sangue”

Bellocchio torna a Bobbio per la sua autobiografia scenica

Bussano, murano, aprono e smurano le comparse bendate di "Sangue del mio sangue", un albero della (non) vita, la cui matrice monocellulare è regolata dal "principio vampiresco isolazionista". Un principio adottato dal Conte Basta, per il quale esiste solo un obiettivo nella vita: non esistere. C'è chi recita per sottrazione e chi, invece, si aggiunge all'identità del passato: Federico Mai (Piergiorgio Bellocchio, sangue del sangue registico) è un soldato, un ispettore regionale e il cardinale che libera Suor Benedetta, accusata di stregoneria. L'algida Alba Rohrwacher è sdoppiata nelle movenze siamesi di Federica Fracassi, mentre il balbuziente Filippo Timi si mette a nudo in un cameo nella sua pazza veste ballerina. Un continuum scenico che ha la consistenza del DAS, avvolgente e costruttivo, ma pur sempre ostico da modellare. Le immagini di questo esorcismo dal passato sono sfocate come sfingi, nonostante siano evidenti le molle scattate da "I pugni in tasca", "Gli occhi, la bocca" (dramma familiare), "Sorelle" (location), "L'ora di religione" (la grazie della Gradiva avanzante e la santificazione del morto), "La visione del sabba" (strega), "Vincere" (costrizioni conventuali) e tutte le situazioni-feticcio della liturgia bellocchiana.

Soliti bersagli la chiesa e la borghesia, questa volta inzuppati in una salsa a metà tra la Storia del secolo barocco-inquisitorio e la storia del mezzo secolo professionale del regista. Il piatto è servito, la portata c'era da aspettarsela, la bocca è buona; grazie all'amara realtà che emerge da un dialogo tra Basta e Cavanna (i due grandi volti satanici e satirici di Roberto Herlitzka e Toni Bertorelli) il pasto non è indigesto. Inghiottita in tutta fretta dalla presenza liquida del monastero di Bobbio, la storia ha una doppia serratura, due mazzi di chiavi nel fondo del ruscello, una CLAVSURA soffocante e un'asfissia liberatoria. La scena di-viene nel presente, quasi vomitata dalle dure credenze del passato. Il film va in vasocostrizione, la pressione sanguigna aumenta e la tensione raggiunge il suo acme quando tra il prologo e l'epilogo passano trent'anni di trasfigurazioni: il guerriero Mai ora veste abiti rossi che portano la macchia del cieco fanatismo clericale, mentre la maledizione caduta su Suor Benedetta l'ha resa evanescente. Smurata dopo che i rifiuti organici avevano coperto il suo corpo, Lidiya Liberman uccide con la sua grazia Sua Eminenza. Dio è morto, ma Bellocchio continua con le sue grandi narrazioni. Il potere del diavolo o il sacro potere della trasparenza? Ecco che ritorna lo splendido isolamento di un uomo che non brilla più da tempo, carne di un corpo che sfugge alla fotomania post-moderna. Non ha più nulla da essere, se non il padre immaginario che intesta 10mila euro a una ragazza che gli ha rimembrato la frequenza del suo battito cardiaco.

Qualche pentimento genitoriale, Bellocchio? I lineamenti che si prestano alla macchina da presa si dilatano e si ritirano in un cortocircuito di somiglianze e di ritorni destabilizzanti, che sfiorano la nausea sartriana. Ed effettivamente, quel senso del "troppo", del flagello del vissuto stanca il corpo gracile di un energico Herlitzka. Come nel sogno più malaugurante, il Conte Basta si nomina alla vita e vuole che gli cadano tutti i denti; ma è l'estetica medica a ricordagli la preservazione di un certo aspetto. Indossa la bombetta come l'uomo de "La grande guerra" di Magritte, mentre la Giuditta di Klimt avanza verso l'Inferno, in un asse temporale sconclusionato, dove le dame del Pollaiolo sono scomparse e le sirene della Polizia suonano spiegate davanti alle prigioni del senso cinematografico. Una masturbazione, forse, ma un godimento blasfemo per tutti gli eretici della logica. Inutili le analisi, sfuggenti i prelievi. E i martelli non battono più sui chiodi, il sepolcro è libero, è già domenica.
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