Ogni cosa è illuminata
Oggi è una guerra essere giornalisti, ma quanto sono protetti al fronte?
All’Università di Bari si discute di verità e informazione in guerra
domenica 9 novembre 2014
13.48
Diventare giornalista è impegnativo, esserlo è una lotta, rimanere tale è una fortuna. La situazione è precaria sin dal principio, sin dalla battaglia che, oggi più che mai, si affronta su un terreno di gioco variegato e sdrucciolevole. Facile scivolare, difficile rimanere in piedi e scalare a vetta. Ma come diceva una delle penne più controverse del giornalismo italiano, Indro Montanelli, "i giovani non vogliono fare i giornalisti, ma gli inviati speciali". Ed effettivamente, gran parte del fascino che aleggia su questa professione è la mitizzazione, se non la martirizzazione che permea un territorio afflitto dalla guerra. Una guerra che ha come prima vittima la verità; una guerra che, seppur illegittima, ha un suo diritto regolatore e una guerra in cui la democrazia non è che una debole figurante.
Per parlarci del polemos come caos istituzionalizzato, della condizione del giornalista al fronte e della verità soggettiva trasmissibile sono intervenuti, presso la sede della facoltà barese di Giurisprudenza, il Professor Fausto Pocar, Presidente dell'Institute of International Humanitarian Law e Giudice del Tribunale penale internazionale per l'ex Iugoslavia e Daniele Mastrogiacomo, Special International Correspondent "La Repubblica". La situazione tecnico-giuridica illustrata da Pocar non è incoraggiante: il giornalista inviato in luoghi di conflitto internazionale è considerato alla stessa stregua di un civile e, come tale, degno di protezione e tutela. Tuttavia, da regolamento, i civili dovrebbero essere tenuti lontani dai posti direttamente colpiti e questo non permetterebbe al giornalista di esercitare il suo ruolo. Situazione un po' più definita per i corrispondenti di guerra, i quali godono di un accreditamento speciale presso le truppe armate. Questo significa che il giornalista, pur non effettuando un esercizio militare, è a contatto con le informazioni militari ed è suo diritto diffonderle. Resta la contraddizione della verità parziale, mono-prospettica e dell'impossibilità di svolgere un'inchiesta autonoma. Questo spiega quanto il quarto potere sia, in realtà, collaterale e subordinato ad altri poteri maggioritari. Per ovviare a questo problema-dice Pocar-si sta valutando la proposta di creare un emblema per gli operatori dell'informazione (con la scritta Press di colore arancione), ma questo li renderebbe troppo riconoscibili e quindi facilmente attaccabili.
Sono sempre di più i giornalisti catturati in Medioriente e che si dichiarano prigionieri di guerra; qui subentra il dovere di tutela da parte dello Stato di appartenenza, ma le mancate (e forse apparenti) trattative Stato-terroristi seminano sempre più morti. Di morti sotto i suoi occhi ne ha visti tanti Daniele Mastrogiacomo, il quale critica l'ombrello protettivo del diritto internazionale che ha lasciato impuniti i criminali di guerra: «Fare l'inviato in Libia, in Afghanistan, in Iraq, in Iran e in Siria mi ha fatto capire come questa professione abbia una natura irrazionale. Con il giornalismo non si diventa ricchi, non si diventa simpatici e si rischia anche la vita, ma rimane uno dei lavori più appaganti che si possa fare. Per 12 anni ho conosciuto la fame, la prigionia, la mancanza di igiene e la paura. Un'altra cultura, alla quale il tuo comportamento deve conformarsi e si deve affidare. Importante è avere un pacchetto di contatti che ti faccia da guida, che conosca il posto e i suoi abiti. Il giornalista deve documentarsi, deve saper rischiare e deve regalare qualche "buco" a qualcuno; non è importante arrivare, ma arrivare primi ed è davvero una guerra farlo, vista la difficoltà di ricezione delle fonti».
Alla domanda se sia stato giusto pubblicare i video dell'Isis, Mastrogiacomo risponde positivamente, perché è bene che chi è lontano dai posti di guerra conosca le condizioni della stampa perseguitata, di uno Stato che non protegge i suoi inviati e di quanta ragionata follia ci sia nelle esecuzioni. Lo stato islamico è ormai dotato di tecnologie invidiabili, di un'abilità d'utilizzo molto calcolata e mirata a una reazione occidentale. E ai tanti studenti presenti in aula il giornalista consiglia di portare in valigia competenze tecnicho-informatiche (video making e montaggio), curiosità, scrittura, contatti e un buon paio di scarpe per sondare i terreni più occulti.
Per parlarci del polemos come caos istituzionalizzato, della condizione del giornalista al fronte e della verità soggettiva trasmissibile sono intervenuti, presso la sede della facoltà barese di Giurisprudenza, il Professor Fausto Pocar, Presidente dell'Institute of International Humanitarian Law e Giudice del Tribunale penale internazionale per l'ex Iugoslavia e Daniele Mastrogiacomo, Special International Correspondent "La Repubblica". La situazione tecnico-giuridica illustrata da Pocar non è incoraggiante: il giornalista inviato in luoghi di conflitto internazionale è considerato alla stessa stregua di un civile e, come tale, degno di protezione e tutela. Tuttavia, da regolamento, i civili dovrebbero essere tenuti lontani dai posti direttamente colpiti e questo non permetterebbe al giornalista di esercitare il suo ruolo. Situazione un po' più definita per i corrispondenti di guerra, i quali godono di un accreditamento speciale presso le truppe armate. Questo significa che il giornalista, pur non effettuando un esercizio militare, è a contatto con le informazioni militari ed è suo diritto diffonderle. Resta la contraddizione della verità parziale, mono-prospettica e dell'impossibilità di svolgere un'inchiesta autonoma. Questo spiega quanto il quarto potere sia, in realtà, collaterale e subordinato ad altri poteri maggioritari. Per ovviare a questo problema-dice Pocar-si sta valutando la proposta di creare un emblema per gli operatori dell'informazione (con la scritta Press di colore arancione), ma questo li renderebbe troppo riconoscibili e quindi facilmente attaccabili.
Sono sempre di più i giornalisti catturati in Medioriente e che si dichiarano prigionieri di guerra; qui subentra il dovere di tutela da parte dello Stato di appartenenza, ma le mancate (e forse apparenti) trattative Stato-terroristi seminano sempre più morti. Di morti sotto i suoi occhi ne ha visti tanti Daniele Mastrogiacomo, il quale critica l'ombrello protettivo del diritto internazionale che ha lasciato impuniti i criminali di guerra: «Fare l'inviato in Libia, in Afghanistan, in Iraq, in Iran e in Siria mi ha fatto capire come questa professione abbia una natura irrazionale. Con il giornalismo non si diventa ricchi, non si diventa simpatici e si rischia anche la vita, ma rimane uno dei lavori più appaganti che si possa fare. Per 12 anni ho conosciuto la fame, la prigionia, la mancanza di igiene e la paura. Un'altra cultura, alla quale il tuo comportamento deve conformarsi e si deve affidare. Importante è avere un pacchetto di contatti che ti faccia da guida, che conosca il posto e i suoi abiti. Il giornalista deve documentarsi, deve saper rischiare e deve regalare qualche "buco" a qualcuno; non è importante arrivare, ma arrivare primi ed è davvero una guerra farlo, vista la difficoltà di ricezione delle fonti».
Alla domanda se sia stato giusto pubblicare i video dell'Isis, Mastrogiacomo risponde positivamente, perché è bene che chi è lontano dai posti di guerra conosca le condizioni della stampa perseguitata, di uno Stato che non protegge i suoi inviati e di quanta ragionata follia ci sia nelle esecuzioni. Lo stato islamico è ormai dotato di tecnologie invidiabili, di un'abilità d'utilizzo molto calcolata e mirata a una reazione occidentale. E ai tanti studenti presenti in aula il giornalista consiglia di portare in valigia competenze tecnicho-informatiche (video making e montaggio), curiosità, scrittura, contatti e un buon paio di scarpe per sondare i terreni più occulti.