Visione in visioni: tornando su Vision 2020
A cura di Matteo Losapio
Una delle direttrici di sviluppo della Vision 2020, infatti, ha visto nel mare e nelle zone portuali delle città coinvolte proprio un volano per l'economia regionale e nazionale, in riferimento ai Balcani e, in particolare, allo sviluppo del Corridoio VIII e all'asse Bar-Belgrado. Tuttavia, senza impelagarci troppo in tecnicismi, ciò che emerge con chiarezza dalla Vision 2020 è, in prima istanza, la visione di futuro. Un documento finale pubblicato nel settembre del 2008 e che guarda al 2020 come mèta di realizzazione dei vari obiettivi, porta con sé una carica di futuro da investire in termini economici, sociali, istituzionali e culturali. E proprio questa visione di futuro che vogliamo reinterpretare in chiave filosofica.
Cosa significa avere una visione di futuro? Come possiamo distinguere ciò che immaginiamo possa essere un futuro prossimo o anteriore che sia dalla fattibilità dei processi? Come possiamo far fronte all'imprevisto nella nostra dimensione progettuale? Non si tratta solo di risposte tecniche da offrire o di soluzioni a buon mercato. Si tratta, invece, di ricollocarci nel contemporaneo. Infatti, se volessimo guardare al 2020, appena passato, di tutto potremmo parlare tranne che di vision. Molto probabilmente, nei libri di storia, il 2020 sarà considerato come l'anno della grande epidemia, della catastrofe economica e sociale, della fragilità dei nostri sistemi globali. Difficile affermare che il 2020 potrà essere ricordato come l'anno delle visioni realizzate, del futuro presente. Allora, come possiamo cercare di interpretare le nostre visioni in ciò che avviene, in ciò che la realtà ci presenta? Nel loro celebre testo L'epoca delle passioni tristi, Schmidt e Benasayag scrivono:
Il futuro non è semplicemente ciò che ci capiterà domani o dopodomani, ma ciò che ci distacca dal presente, ponendoci, contemporaneamente, in una prospettiva, in un pensiero, in una proiezione. In sintesi, il futuro è un concetto. Proviamo a chiarire con un semplice esempio. Non più di quarant'anni fa tutti pensavamo che, prima o poi, saremmo riusciti a guarire malattie gravi come il cancro. Credevamo con forza che saremmo riusciti a spiegare le leggi della natura, e quindi a modificare quel che ci sembrava difettoso. Ciò che si ignorava riguardo alle malattie era considerato in biologia non ancora conosciuto… In questa sfumatura del non ancora risuonava la speranza e la promessa di una realizzazione futura, di un avvicinamento progressivo alla conoscenza. Lo stesso vale per l'ingiustizia sociale, l'ignoranza eccetera.[1]
Il problema si colloca, a nostro parere, nella declinazione di futuro e complessità. Dalla filosofia esistenzialista del Novecento e, in particolare, da Sartre, abbiamo imparato che l'essere umano è un essere progettante. L'essere umano, maschile e femminile, è un essere che, in sé e per sé, desidera. Ed è questo desiderio che fa emergere la propensione verso il futuro, la certezza individuale di migliorare se stessi nel futuro, di ricostruire dopo le macerie. Se questo paradigma progettante esprime l'idea di un futuro non ancora realizzato, ciò che concerne la visione è l'allargare il futuro alla dimensione della complessità degli attori presenti nella scena sociale. In altre parole, avere una visione non si tratta di realizzare tutto quello che l'Io si prefigge, ma collaborare affinché il futuro sia condiviso, sia comune. Nel corso della storia, le catastrofi hanno permesso lo sviluppo di una nuova visione della società e delle comunità colpite. Un progettare insieme, un collaborare insieme, una capacità di resistenza e di fortezza che non riguarda solo il prevenire o il prevedere, ma soprattutto l'affrontare la realtà. Visione, dunque, è capacità di guardare oltre le catastrofi, ma di guardare insieme, nella consapevolezza che il futuro è sempre più complesso e, al tempo stesso, stimolante.