Corpi che contano?
A cura di Giulia Catino
Può, però, un corpo incasellarci, cristallizzarci, fissarci in uno schema fisso e inamovibile? Può condizionarci a tal punto da limitare il nostro successo e le nostre conquiste pubbliche e sociali?
Sempre più spesso assistiamo a quel fenomeno sociale, più comunemente chiamato Bodyshaming, per cui i corpi, parti o caratteristiche di questo vengono resi oggetto di scherno, condannando la singola persona ad una gogna mediatica. Nella maggior parte dei casi è proprio il corpo della donna ad essere preso d'assalto, diventando, nell'era digitale, un vero e proprio campo di battaglia. Dunque, è realmente un corpo a definirci o dietro una pratica amaramente comune si cela dell'altro?
Vi è una sorta di educazione e di formazione, che Bourdieu chiama Bildung, basata sull'inculcare diversi modi di atteggiare il corpo a seconda della differenziazione in base al genere, influenzandone il modo di camminare, di atteggiare la testa e/o lo sguardo. Questi "atteggiamenti" sono favoriti anche dal tipo di abbigliamento, a cui poi si lega necessariamente una morale che etichetta come "di buon gusto" una donna che limita i propri movimenti a causa di gonne troppo succinte e corte che, viceversa, vincolano il movimento. A chi obiettasse che molte donne ai giorni nostri non seguono più le norme e le forme tradizionali del contegno e vedesse nello spazio che lasciano all'esibizione controllata del corpo un segno di "liberazione", basterebbe ricordare che quest'uso del proprio corpo rimane con ogni evidenza subordinato al punto di vista maschile: il corpo femminile offerto e insieme rifiutato manifesta la disponibilità simbolica che, come molti lavori femministi hanno mostrato, si addice alla donna, combinazione di un potere di attrazione e di seduzione conosciuto e riconosciuto da tutti/e.
"L'effetto del dominio simbolico (di etnia, genere, cultura, lingua, ecc.) si esercita non nella logica pura delle coscienze conoscenti, ma attraverso schemi di percezione, di valutazione e di azione che sono costitutivi degli habitus e fondano, al di qua delle decisioni della coscienza e dei controlli della volontà, un rapporto di conoscenza profondamente oscuro a se stesso. Così, la logica paradossale del dominio maschile e della sottomissione femminile, di cui si può dire, contemporaneamente e senza contraddizione, che è spontanea ed estorta, si capisce solo se si prende atto degli effetti durevoli che l'ordine sociale esercita sulle donne (e gli uomini), cioè delle disposizioni spontaneamente adattate a quell'ordine che essa impone loro. La forza simbolica è una forma di potere che si esercita sui corpi, direttamente, e come per magia, in assenza di ogni costrizione fisica; ma questa magia opera solo poggiandosi su disposizioni depositate, vere e proprie molle, nel più profondo dei corpi. […] La forza simbolica trova le sue condizioni di possibilità e la sua contropartita economica (nel senso ampio del termine) nell'immenso lavoro preliminare necessario per operare una trasformazione durevole dei corpi e produrre le disposizioni permanenti che essa scatena e risveglia; azione trasformatrice tanto più potente in quanto si esercita, essenzialmente, in modo invisibile e insidioso, attraverso la familiarizzazione insensibile con un mondo fisico simbolicamente strutturato e un'esperienza precoce e prolungata di interazioni abitate dalle strutture di dominio."[1]
La familiarità con l'oggettivazione e la soggettivazione delle pratiche di differenziazione e socializzazione dei corpi non nasce dalla semplice acquisizione dei saperi, bensì è indotta da quella riappropriazione di una conoscenza a un tempo posseduta e da sempre perduta che Freud, seguendo Platone, chiama anamnesi. Ciò, però, non verte, come in Platone solo su contenuti eidetici, né, come in Freud, su un processo individuale di costituzione dell'inconscio, il cui aspetto sociale, pur non completamente escluso, si riduce ad una struttura familiare generica e universale, mai caratterizzata socialmente. Piuttosto, in questo caso l'anamnesi verte sulla filogenesi e l'ontogenesi di un inconscio insieme collettivo e individuale, traccia incorporata di una storia collettiva e di una storia individuale che impone a tutti gli agenti il suo sistema di presupposti imperativi. Il mondo, dunque, si presenta seminato di indizi e segni che indicano cose da fare e da non fare e non si rivolgono ad un agente qualsiasi, ma si specificano se le posizioni e le disposizioni dell'agente.
Il processo comporta una sorta di frammentazione strumentale nella percezione sociale, la divisione della persona in parti che servono a scopi e funzioni specifici dell'osservatore. Secondo Martha Nussbaum il concetto di oggettivazione comprende sette dimensioni: la strumentalità con cui l'oggetto è un mezzo per il raggiungimento degli scopi altrui; l'inerzia laddove l'oggetto è un'identità priva della capacità di agire e di essere attivo; la negazione dell'autonomia in cui l'oggetto è un'entità priva di autodeterminazione; la fungibilità in cui l'oggetto è interscambiabile con altri oggetti della stessa categoria; la violabilità per cui l'oggetto è un'entità priva di confini che ne tutelino l'integrità ed è per questo possibile farlo a pezzi; la proprietà in quanto l'oggetto appartiene a qualcuno; la negazione della soggettività in cui l'oggetto è un'entità le cui esperienze e i cui sentimenti sono trascurabili.
"Attraverso le speranze soggettive che impongono le attese collettive, positive o negative, tendono a inscriversi nei corpi sotto forma di disposizioni permanenti. Così, secondo la legge universale dell'adattamento delle speranze alle opportunità, delle aspirazioni alle possibilità, l'esperienza prolungata e invisibilmente mutilata di un mondo totalmente sessuato tende a far deperire, scoraggiandola, l'inclinazione stessa a compiere gli atti che non ci si attende dalle donne, senza che ci sia bisogni di divieti espliciti."[2]
Dunque, il corpo in sé non ha colpe in una potenziale definizione identitaria. A dover essere messa sotto processo è la storia di un vero e proprio addestramento collettivo del pensiero sociale che, muovendosi sulla falsariga di un pensiero universale e totalizzante, schiaccia e reprime le storie uniche e particolari di cui i corpi si fanno manifesto, rendendole giudicabili e criticabili in base a stereotipi e stigmi stabiliti dall'alto e da una ristretta cerchia sociale, che si proclama come la più perfetta e intoccabile.