Territorio
Vent'anni dopo: l'attualità del FRED nelle parole di Ottavio Marzocca
Docente di Filosofia etico-politica all’Università di Bari. «Il FRED proponeva una nuova concezione dello spazio cittadino»
Barletta - martedì 15 maggio 2012
18.27
Incontriamo il professor Ottavio Marzocca, docente di Filosofia etico-politica all'Università di Bari e, negli anni Novanta, protagonista insieme ad altri del Forum per il Riuso dell'Ex Distilleria (FRED). Per circa un anno, dalla metà del 1994, è stato anche assessore all'ambiente di Barletta. Discutiamo dei ricordi di un'esperienza passata, ma quantomai attuale. Ci offre riflessioni nette, direi severe, su fondamentali questioni che riguardano le città, la nostra città.
Cercando di fare mente locale sul periodo – che risale ormai a molti anni fa – di attività del FRED a difesa dell'ex Distilleria di Barletta, quali furono i temi e le questioni che allora vennero affrontate? Le ritiene ancora attuali?
«Il tema più immediato fu quello della rivisitazione e dell'ampliamento del concetto di memoria storico-culturale della città. La grande sensibilità delle associazioni che crearono il FRED e la straordinaria apertura culturale della Soprintendenza regionale ai Beni Artistici e Storici dell'epoca, consentirono che un complesso industriale risalente alla seconda metà dell'Ottocento venisse salvato con la presentazione di una domanda di 'vincolo di tutela' e con il suo accoglimento mediante l'emanazione di un apposito Decreto del Ministero dei Beni Culturali.
Ma, a parte questo, il tema più dirompente e innovativo proposto dal FRED fu quello della qualità dello sviluppo urbano: si cercò di mostrare che la configurazione dell'ex distilleria era di fatto un modello alternativo alla smodata espansione edilizia di cui il territorio barlettano era ed è ancora vittima. L'aver salvato l'ex distilleria già di per sé rappresentò una specie di profanazione di quel "destino naturale" a cui vengono generalmente sottoposte le aree urbane che si rendono disponibili dopo la dismissione delle loro attività precedenti. Nel suo stesso documento statutario, il FRED proponeva una nuova concezione dello spazio cittadino, basata sulla cultura del recupero, del restauro, della riqualificazione urbana, della conservazione e della rigenerazione degli equilibri storico-ambientali del territorio. Purtroppo, però, se pensiamo al dilagante abuso del suolo, agli scandali urbanistici che si moltiplicano in ogni parte d'Italia, dall'urbanizzazione della campagna di Montaltino a Barletta al crollo della palazzina di Via Roma – dovuto in gran parte a una malintesa concezione della riqualificazione e a una pervicace mania edificatoria –, ci rendiamo conto che il ceto politico-amministrativo, i tecnici e l'imprenditoria edilizia nel nostro paese non hanno mai smesso di vedere nella cementificazione la propria 'linea strategica' da imporre ciecamente al territorio. Non avrei dubbi, perciò, sul fatto che i problemi sollevati vent'anni fa dal FRED oggi siano più attuali che mai».
Di cosa la città aveva bisogno allora? Crede che oggi si sia risposto a queste necessità?
«La città aveva ed ha bisogno di riconciliarsi con l'idea dell'abitare. Un territorio non si "abita" costruendo residenze all'infinito e prescindendo dalle specificità ambientali, storiche e culturali dei luoghi. Questo è uno dei modi "migliori" per devastarlo e renderlo definitivamente inabitabile. Ovviamente, non si tratta di un problema esclusivo di Barletta, ma salta agli occhi se si guarda alla densità edilizia che caratterizza sia il centro che le periferie. La causa generale di questa situazione sta nel fatto di considerare il suolo come un oggetto di scambio e di investimento come se si trattasse di una merce qualsiasi. In realtà il suolo e il territorio sono dei beni non riproducibili, sono e restano dei "beni comuni" anche quando la loro proprietà è formalmente privata».
C'è un'eredità del FRED?
«Il FRED è stato una sorta di esperienza precoce di quella 'cittadinanza attiva' e di quello 'spirito civico' di cui oggi si avverte un bisogno vitale di fronte alla decadenza politica e civile in cui è precipitato il nostro Paese da quando non ci si è più vergognati di esaltare il perseguimento a tutti i costi dell'interesse privato e dello sviluppo economico fine a se stesso, che prescinde da qualunque "compatibilità" ambientale e sociale. Mi pare che a Barletta negli ultimi anni siano nati vari gruppi di cittadini che si impegnano sulle tematiche ambientali e territoriali. Non posso che auspicare che essi raccolgano e rinnovino anche l'eredità del forum. Un altro segnale importante è la creazione del GOS (Giovani Open Space) in uno degli edifici dell'ex distilleria. Certamente è ancora poco per parlare di recupero e trasformazione del complesso, ma questo dipende soprattutto dallo "scarso impegno" della classe politica verso questi problemi. Gli amministratori locali sembrano non rendersi conto del fatto che hanno anche delle responsabilità legali riguardo alla tutela di un patrimonio storico di proprietà pubblica, che invece continuano a lasciare esposto al degrado e al pericolo di crollo».
Cosa pensa dei progetti di riutilizzo di quell'area e soprattutto di quello che già si vede (per esempio la struttura che dovrebbe contenere l'orto botanico)?
«Il progetto complessivo di recupero è quello del "Piano Gasparrini", la cui approvazione in Consiglio comunale risale al 1998. Lo schema di quel progetto è abbastanza apprezzabile, ma in realtà esso non va molto oltre la presa d'atto del fatto che c'è un complesso architettonico da recuperare, visto che non lo si può radere al suolo o stravolgere, essendo esso tutelato come bene storico-culturale. È quel piano, comunque, a prevedere anche la realizzazione di un orto botanico, ma il modo in cui questo è stato realizzato di recente, francamente è piuttosto sconcertante, poiché non si è riusciti ad evitare di appesantire la struttura con una grande quantità di manufatti, muri e barriere in cemento che tradiscono notevolmente gli equilibri architettonici dell'ex distilleria. Più allarmante di ogni altra cosa è la previsione di un parcheggio nel sottosuolo del complesso, previsione che occorrerebbe invece depennare dal progetto, destinando le relative risorse al risanamento degli edifici storici i quali rischiano di sgretolarsi per il degrado che li insidia».
Qual è il messaggio che si sente di offrirci?
«A Barletta ormai bisognerebbe prendere atto che i limiti dell'espansione edilizia e della sostenibilità territoriale sono stati abbondantemente superati: occorrerebbe invertire la marcia dell'espansione illimitata, attivando processi culturali, politici ed economici che promuovano il risanamento ambientale, la riqualificazione dell'esistente, la cura del paesaggio rurale, la rigenerazione del patrimonio storico e il recupero urbano. A livello locale e nazionale, sia le forze politiche sia gli operatori dell'edilizia e dell'urbanistica dovrebbero letteralmente convertirsi a una simile prospettiva e porsi al suo servizio. Altrimenti la millenaria civiltà urbana basata sul senso della misura e sulla cura del territorio, di cui il nostro paese è depositario, finirà per essere distrutta senza rimedio».
Ha qualcosa da rimproverare alla sua esperienza per quanto riguarda l'ex Distilleria?
«Certamente non posso non rimproverarmi di aver affievolito il mio impegno e di essermi lasciato sopraffare dalla stanchezza attorno al 2000, dopo circa un decennio di iniziative di ogni genere. Inoltre, posso rimproverarmi forse di aver riposto troppa fiducia nella svolta politica che sembrò profilarsi a Barletta nel 1994, quando mi candidai al Consiglio comunale (senza essere eletto) e accettai di far parte di una Giunta di centro-sinistra che parve prendere a cuore la prospettiva del riuso dell'ex distilleria. Anche per merito di altri esponenti, negli anni successivi furono fatti dei passi molto significativi in questa direzione, per esempio con l'acquisto del complesso da parte del Comune. D'altra parte, la classe politica locale in genere ha sempre frenato la realizzazione di quella prospettiva, quando non l'ha, più o meno apertamente, ostacolata. La mia speranza naturalmente è che che ci si ravveda una volta per tutte e che, in particolare, ci si richiami senza esitazioni alla sensibilità politico-culturale dell'attuale assessorato pugliese all'urbanistica, l'unico in Italia ad aver portato a compimento l'approvazione di un Piano territoriale paesaggistico regionale».
Cercando di fare mente locale sul periodo – che risale ormai a molti anni fa – di attività del FRED a difesa dell'ex Distilleria di Barletta, quali furono i temi e le questioni che allora vennero affrontate? Le ritiene ancora attuali?
«Il tema più immediato fu quello della rivisitazione e dell'ampliamento del concetto di memoria storico-culturale della città. La grande sensibilità delle associazioni che crearono il FRED e la straordinaria apertura culturale della Soprintendenza regionale ai Beni Artistici e Storici dell'epoca, consentirono che un complesso industriale risalente alla seconda metà dell'Ottocento venisse salvato con la presentazione di una domanda di 'vincolo di tutela' e con il suo accoglimento mediante l'emanazione di un apposito Decreto del Ministero dei Beni Culturali.
Ma, a parte questo, il tema più dirompente e innovativo proposto dal FRED fu quello della qualità dello sviluppo urbano: si cercò di mostrare che la configurazione dell'ex distilleria era di fatto un modello alternativo alla smodata espansione edilizia di cui il territorio barlettano era ed è ancora vittima. L'aver salvato l'ex distilleria già di per sé rappresentò una specie di profanazione di quel "destino naturale" a cui vengono generalmente sottoposte le aree urbane che si rendono disponibili dopo la dismissione delle loro attività precedenti. Nel suo stesso documento statutario, il FRED proponeva una nuova concezione dello spazio cittadino, basata sulla cultura del recupero, del restauro, della riqualificazione urbana, della conservazione e della rigenerazione degli equilibri storico-ambientali del territorio. Purtroppo, però, se pensiamo al dilagante abuso del suolo, agli scandali urbanistici che si moltiplicano in ogni parte d'Italia, dall'urbanizzazione della campagna di Montaltino a Barletta al crollo della palazzina di Via Roma – dovuto in gran parte a una malintesa concezione della riqualificazione e a una pervicace mania edificatoria –, ci rendiamo conto che il ceto politico-amministrativo, i tecnici e l'imprenditoria edilizia nel nostro paese non hanno mai smesso di vedere nella cementificazione la propria 'linea strategica' da imporre ciecamente al territorio. Non avrei dubbi, perciò, sul fatto che i problemi sollevati vent'anni fa dal FRED oggi siano più attuali che mai».
Di cosa la città aveva bisogno allora? Crede che oggi si sia risposto a queste necessità?
«La città aveva ed ha bisogno di riconciliarsi con l'idea dell'abitare. Un territorio non si "abita" costruendo residenze all'infinito e prescindendo dalle specificità ambientali, storiche e culturali dei luoghi. Questo è uno dei modi "migliori" per devastarlo e renderlo definitivamente inabitabile. Ovviamente, non si tratta di un problema esclusivo di Barletta, ma salta agli occhi se si guarda alla densità edilizia che caratterizza sia il centro che le periferie. La causa generale di questa situazione sta nel fatto di considerare il suolo come un oggetto di scambio e di investimento come se si trattasse di una merce qualsiasi. In realtà il suolo e il territorio sono dei beni non riproducibili, sono e restano dei "beni comuni" anche quando la loro proprietà è formalmente privata».
C'è un'eredità del FRED?
«Il FRED è stato una sorta di esperienza precoce di quella 'cittadinanza attiva' e di quello 'spirito civico' di cui oggi si avverte un bisogno vitale di fronte alla decadenza politica e civile in cui è precipitato il nostro Paese da quando non ci si è più vergognati di esaltare il perseguimento a tutti i costi dell'interesse privato e dello sviluppo economico fine a se stesso, che prescinde da qualunque "compatibilità" ambientale e sociale. Mi pare che a Barletta negli ultimi anni siano nati vari gruppi di cittadini che si impegnano sulle tematiche ambientali e territoriali. Non posso che auspicare che essi raccolgano e rinnovino anche l'eredità del forum. Un altro segnale importante è la creazione del GOS (Giovani Open Space) in uno degli edifici dell'ex distilleria. Certamente è ancora poco per parlare di recupero e trasformazione del complesso, ma questo dipende soprattutto dallo "scarso impegno" della classe politica verso questi problemi. Gli amministratori locali sembrano non rendersi conto del fatto che hanno anche delle responsabilità legali riguardo alla tutela di un patrimonio storico di proprietà pubblica, che invece continuano a lasciare esposto al degrado e al pericolo di crollo».
Cosa pensa dei progetti di riutilizzo di quell'area e soprattutto di quello che già si vede (per esempio la struttura che dovrebbe contenere l'orto botanico)?
«Il progetto complessivo di recupero è quello del "Piano Gasparrini", la cui approvazione in Consiglio comunale risale al 1998. Lo schema di quel progetto è abbastanza apprezzabile, ma in realtà esso non va molto oltre la presa d'atto del fatto che c'è un complesso architettonico da recuperare, visto che non lo si può radere al suolo o stravolgere, essendo esso tutelato come bene storico-culturale. È quel piano, comunque, a prevedere anche la realizzazione di un orto botanico, ma il modo in cui questo è stato realizzato di recente, francamente è piuttosto sconcertante, poiché non si è riusciti ad evitare di appesantire la struttura con una grande quantità di manufatti, muri e barriere in cemento che tradiscono notevolmente gli equilibri architettonici dell'ex distilleria. Più allarmante di ogni altra cosa è la previsione di un parcheggio nel sottosuolo del complesso, previsione che occorrerebbe invece depennare dal progetto, destinando le relative risorse al risanamento degli edifici storici i quali rischiano di sgretolarsi per il degrado che li insidia».
Qual è il messaggio che si sente di offrirci?
«A Barletta ormai bisognerebbe prendere atto che i limiti dell'espansione edilizia e della sostenibilità territoriale sono stati abbondantemente superati: occorrerebbe invertire la marcia dell'espansione illimitata, attivando processi culturali, politici ed economici che promuovano il risanamento ambientale, la riqualificazione dell'esistente, la cura del paesaggio rurale, la rigenerazione del patrimonio storico e il recupero urbano. A livello locale e nazionale, sia le forze politiche sia gli operatori dell'edilizia e dell'urbanistica dovrebbero letteralmente convertirsi a una simile prospettiva e porsi al suo servizio. Altrimenti la millenaria civiltà urbana basata sul senso della misura e sulla cura del territorio, di cui il nostro paese è depositario, finirà per essere distrutta senza rimedio».
Ha qualcosa da rimproverare alla sua esperienza per quanto riguarda l'ex Distilleria?
«Certamente non posso non rimproverarmi di aver affievolito il mio impegno e di essermi lasciato sopraffare dalla stanchezza attorno al 2000, dopo circa un decennio di iniziative di ogni genere. Inoltre, posso rimproverarmi forse di aver riposto troppa fiducia nella svolta politica che sembrò profilarsi a Barletta nel 1994, quando mi candidai al Consiglio comunale (senza essere eletto) e accettai di far parte di una Giunta di centro-sinistra che parve prendere a cuore la prospettiva del riuso dell'ex distilleria. Anche per merito di altri esponenti, negli anni successivi furono fatti dei passi molto significativi in questa direzione, per esempio con l'acquisto del complesso da parte del Comune. D'altra parte, la classe politica locale in genere ha sempre frenato la realizzazione di quella prospettiva, quando non l'ha, più o meno apertamente, ostacolata. La mia speranza naturalmente è che che ci si ravveda una volta per tutte e che, in particolare, ci si richiami senza esitazioni alla sensibilità politico-culturale dell'attuale assessorato pugliese all'urbanistica, l'unico in Italia ad aver portato a compimento l'approvazione di un Piano territoriale paesaggistico regionale».