Religioni
La nuova esistenza del credente sotto l'azione dello Spirito
Dal Vangelo secondo Giovanni
Barletta - domenica 15 maggio 2016
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perchè rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua (da cui il nome Pentecoste) era già celebrato nell'Ebraismo con la festa dello Shavuot, letteralmente "delle settimane" (una settimana di settimane, il cui giorno successivo indica pienezza) e consisteva nel fare memoria della Rivelazione di Jahwè sul Sinai, siglata col dono della Legge (la Torah), scritta su tavole di pietra. Con questo retroterra la Pentecoste cristiana celebra la pienezza della Rivelazione mediante il dono dello Spirito "scritto" non più su tavole di pietra ma nel cuore degli uomini, adempiendo così la profezia di Geremia.
Il racconto dell'evento è affidato alla pagina della prima lettura, tratto dagli Atti degli Apostoli, e ci narra il fatto, ciò che è accaduto; si trova "fuori" dai vangeli perché aiuta a leggere gli stessi vangeli. Quale la conseguenza? L'unità nella diversità. E quale la sfida migliore, allora, per l'uomo di oggi che non riesce a fare unità neanche con il simile, figuriamoci col diverso? Ma c'è anche una conseguenza che il dono dello Spirito persegue nella vita del credente, il passaggio dall'essere servo-schiavo della Legge a figlio di un Dio che è Padre.
Il brano del Vangelo odierno in realtà lo abbiamo già ascoltato la quarta domenica di Pasqua; proclamato quest'oggi, tuttavia, ci fa cogliere tutta la novità della portata del dono dello Spirito. È Gesù stesso che si fa intercessore reso il Padre per ottenerci il dono dello Spirito. È questa preghiera di Gesù si intreccia con la preghiera del credente adulto nella fede che chiede lo Spirito: "Il Padre celeste darà il dono dello Spirito a coloro che glielo chiedono" (Lc 11,13).
Il dono dello Spirito inaugura una nuova creazione in cui l'atto ri-creativo è dato dal perdono dei peccati che elimina una volta per tutte il giudizio per la condanna. È questo discorso è attualissimo: difronte al giudizio minaccioso e spietato del mondo, degli altri, di noi stessi verso i "credenti credibili" (e presumibilmente anche verso noi stessi) lo Spirito Santo è colui che è "chiamato a stare vicino" (questo il significato letterale del termine Paraclito) per non farci sentire soli, per renderci sapienti e intelligenti, ovvero capaci di discernere i segni dei tempi e di "leggere dentro" (il dono dell'intelletto) le diverse realtà umane e temporali (della storia e del mondo) e ci fa diventare presenza dialogica nel mondo e nella società, superando quell'acida criticità che sovente ci fa posizionare in assetto altro e alto rispetto al mondo.
Due ruoli svolge lo Spirito nella nostra vita (in realtà sono infiniti ma il brano odierno ce ne sottopone particolarmente due): insegna e ricorda. Mi piace pensare, specialmente in riferimento al primo verbo, in senso diversamente etimologico: insegnare, ovvero "segnare dentro, in profondità" (lo Spirito è sfraghìs, sigillo indelebile) e ricordare, nel senso di "riportare al cuore" e non semplicemente come un'azione puramente mnemonica ma emotivo-affettiva.
Perché questo possa accadere occorrono due atteggiamenti da parte nostra: l'apertura del cuore per ricevere il dono e l'accoglienza per comprendere in noi. Questo permetterà la pienezza del dono che, non potendolo contenere e trattenere esclusivamente in noi per il suo potenziale divino, ci farà esplodere di amorosa gioia rendendoci fecondi nei frutti dello Spirito in noi e verso l'esterno.
[don Vito]
Il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua (da cui il nome Pentecoste) era già celebrato nell'Ebraismo con la festa dello Shavuot, letteralmente "delle settimane" (una settimana di settimane, il cui giorno successivo indica pienezza) e consisteva nel fare memoria della Rivelazione di Jahwè sul Sinai, siglata col dono della Legge (la Torah), scritta su tavole di pietra. Con questo retroterra la Pentecoste cristiana celebra la pienezza della Rivelazione mediante il dono dello Spirito "scritto" non più su tavole di pietra ma nel cuore degli uomini, adempiendo così la profezia di Geremia.
Il racconto dell'evento è affidato alla pagina della prima lettura, tratto dagli Atti degli Apostoli, e ci narra il fatto, ciò che è accaduto; si trova "fuori" dai vangeli perché aiuta a leggere gli stessi vangeli. Quale la conseguenza? L'unità nella diversità. E quale la sfida migliore, allora, per l'uomo di oggi che non riesce a fare unità neanche con il simile, figuriamoci col diverso? Ma c'è anche una conseguenza che il dono dello Spirito persegue nella vita del credente, il passaggio dall'essere servo-schiavo della Legge a figlio di un Dio che è Padre.
Il brano del Vangelo odierno in realtà lo abbiamo già ascoltato la quarta domenica di Pasqua; proclamato quest'oggi, tuttavia, ci fa cogliere tutta la novità della portata del dono dello Spirito. È Gesù stesso che si fa intercessore reso il Padre per ottenerci il dono dello Spirito. È questa preghiera di Gesù si intreccia con la preghiera del credente adulto nella fede che chiede lo Spirito: "Il Padre celeste darà il dono dello Spirito a coloro che glielo chiedono" (Lc 11,13).
Il dono dello Spirito inaugura una nuova creazione in cui l'atto ri-creativo è dato dal perdono dei peccati che elimina una volta per tutte il giudizio per la condanna. È questo discorso è attualissimo: difronte al giudizio minaccioso e spietato del mondo, degli altri, di noi stessi verso i "credenti credibili" (e presumibilmente anche verso noi stessi) lo Spirito Santo è colui che è "chiamato a stare vicino" (questo il significato letterale del termine Paraclito) per non farci sentire soli, per renderci sapienti e intelligenti, ovvero capaci di discernere i segni dei tempi e di "leggere dentro" (il dono dell'intelletto) le diverse realtà umane e temporali (della storia e del mondo) e ci fa diventare presenza dialogica nel mondo e nella società, superando quell'acida criticità che sovente ci fa posizionare in assetto altro e alto rispetto al mondo.
Due ruoli svolge lo Spirito nella nostra vita (in realtà sono infiniti ma il brano odierno ce ne sottopone particolarmente due): insegna e ricorda. Mi piace pensare, specialmente in riferimento al primo verbo, in senso diversamente etimologico: insegnare, ovvero "segnare dentro, in profondità" (lo Spirito è sfraghìs, sigillo indelebile) e ricordare, nel senso di "riportare al cuore" e non semplicemente come un'azione puramente mnemonica ma emotivo-affettiva.
Perché questo possa accadere occorrono due atteggiamenti da parte nostra: l'apertura del cuore per ricevere il dono e l'accoglienza per comprendere in noi. Questo permetterà la pienezza del dono che, non potendolo contenere e trattenere esclusivamente in noi per il suo potenziale divino, ci farà esplodere di amorosa gioia rendendoci fecondi nei frutti dello Spirito in noi e verso l'esterno.
[don Vito]