Cronaca
Assicurato alla giustizia uno degli assassini del maresciallo di Barletta Francesco Dicataldo
L’estradizione in Italia di 7 terroristi ci riporta alla memoria il martirio del poliziotto barlettano ucciso dalle BR nell’aprile 1978
Barletta - giovedì 29 aprile 2021
15.10
Quando si parla di "Anni di piombo", noi barlettani figli delle generazioni successive a quel tragico periodo, tendiamo ad immaginarli come un qualcosa di fisicamente e temporalmente lontano da noi, e in sostanza riassumibili nel rapimento e nell'uccisione di Aldo Moro. E invece, quanto accaduto ieri in Francia, con la concessione dell'estradizione di ben sette terroristi rossi già condannati in contumacia dalla giustizia italiana, ci ricorda quanto quelle terribili vicende sino state molto più vicine a noi di quanto immaginassimo.
In particolare la consegna alla giustizia italiana di Sergio Tornaghi, condannato all'ergastolo per l'assassinio del maresciallo barlettano Francesco Dicataldo (52 anni), in servizio a Milano presso le guardie carcerarie del carcere di San Vittore.A rendere ancora più vicina per noi barlettani la vicenda del maresciallo Dicataldo è il contesto di quella tragica primavera del 1978 e di quel periodo in genere. La Barletta della seconda metà degli anni '70 è una città ancora ferita dal dramma di Pino Marchisella, il poliziotto ucciso a Roma durante una rapina, e di Chiara, la sua fidanzata, suicidatasi qualche giorno dopo.
Sindaco di Barletta nel 1978 è Armando Messina (padre della senatrice PD Assuntela Messina ndr), il "moroteo" per eccellenza della politica barlettana. Facile quindi immaginare quale fosse lo stato d'animo, non solo della politica, ma di un'intera comunità, la mattina del 16 marzo 1978, il giorno del sequestro di Aldo Moro e della strage di Via Fani, dove tra l'altro perse la vita un altro figlio di Puglia: il fasanese Francesco Zizzi. Tutto questo appena sei giorni dopo l'assassinio a Torino, sempre ad opera delle Brigate Rosse, di un altro nostro conterraneo: il maresciallo barese Rosario Berardi.
In un contesto del genere possiamo facilmente intuire quale fosse il modus vivendi di Francesco Dicataldo e della sua famiglia, in una città particolarmente difficile quanto a violenza e terrorismo politico come la Milano di quegli anni. Un vivere perennemente sul filo del rasoio, stando bene attenti a pesare gesti e parole in un ambiente come quello carcerario milanese – un contesto di quelli dove "i muri parlano" - nel quale un gesto o una parola male interpretata poteva costare la vita.
Francesco Dicataldo lo sapeva bene, era in servizio ormai da trent'anni ed era troppo esperto per rispondere a ingiurie e provocazioni tipo "sbirro", "servo dello Stato" e tante altre "perle di saggezza" tanto in voga in quegli anni caratterizzati si da forte fermento intellettuale, ma anche da "soccorsi rossi", "cattivi maestri", "eversione nera" e "compagni che sbagliano".
Per dare ulteriore idea al lettore dell'aria pesante che si respirava in quei mesi, basta ricordare che il giorno della strage di Via Fani, nelle scuole e nelle Università d'Italia c'è stato chi ha applaudito convintamente, non a Moro e alla sua scorta, ma ai terroristi. Francesco Dicataldo lo sapeva bene e naturalmente cercava di stare attento. Era un agente particolarmente apprezzato, non solo dai suoi colleghi e superiori, ma persino da tanti detenuti per la sua correttezza ed umanità. Tratti di un carattere ben lontano dal "torturatore di detenuti" descritto dal delirante comunicato delle Brigate Rosse Colonna "Walter Alasia" che ne rivendicava l'assassinio, avvenuto alle 7:30 circa del 20 aprile 1978 presso la fermata dell'autobus di Milano Lambrate mentre il maresciallo si recava al lavoro.
Per questo tale ferita non può che rimanere "aperta", come scritto dal presidente del consiglio comunale di Barletta Sabino Dicataldo nel comunicato di ringraziamento rivolto al Presidente del Consiglio Draghi, al presidente francese Macron per aver permesso di assicurare finalmente alla giustizia gli autori di questo e di tanti altri crimini tanto efferati quanto insensati.
In particolare la consegna alla giustizia italiana di Sergio Tornaghi, condannato all'ergastolo per l'assassinio del maresciallo barlettano Francesco Dicataldo (52 anni), in servizio a Milano presso le guardie carcerarie del carcere di San Vittore.A rendere ancora più vicina per noi barlettani la vicenda del maresciallo Dicataldo è il contesto di quella tragica primavera del 1978 e di quel periodo in genere. La Barletta della seconda metà degli anni '70 è una città ancora ferita dal dramma di Pino Marchisella, il poliziotto ucciso a Roma durante una rapina, e di Chiara, la sua fidanzata, suicidatasi qualche giorno dopo.
Sindaco di Barletta nel 1978 è Armando Messina (padre della senatrice PD Assuntela Messina ndr), il "moroteo" per eccellenza della politica barlettana. Facile quindi immaginare quale fosse lo stato d'animo, non solo della politica, ma di un'intera comunità, la mattina del 16 marzo 1978, il giorno del sequestro di Aldo Moro e della strage di Via Fani, dove tra l'altro perse la vita un altro figlio di Puglia: il fasanese Francesco Zizzi. Tutto questo appena sei giorni dopo l'assassinio a Torino, sempre ad opera delle Brigate Rosse, di un altro nostro conterraneo: il maresciallo barese Rosario Berardi.
In un contesto del genere possiamo facilmente intuire quale fosse il modus vivendi di Francesco Dicataldo e della sua famiglia, in una città particolarmente difficile quanto a violenza e terrorismo politico come la Milano di quegli anni. Un vivere perennemente sul filo del rasoio, stando bene attenti a pesare gesti e parole in un ambiente come quello carcerario milanese – un contesto di quelli dove "i muri parlano" - nel quale un gesto o una parola male interpretata poteva costare la vita.
Francesco Dicataldo lo sapeva bene, era in servizio ormai da trent'anni ed era troppo esperto per rispondere a ingiurie e provocazioni tipo "sbirro", "servo dello Stato" e tante altre "perle di saggezza" tanto in voga in quegli anni caratterizzati si da forte fermento intellettuale, ma anche da "soccorsi rossi", "cattivi maestri", "eversione nera" e "compagni che sbagliano".
Per dare ulteriore idea al lettore dell'aria pesante che si respirava in quei mesi, basta ricordare che il giorno della strage di Via Fani, nelle scuole e nelle Università d'Italia c'è stato chi ha applaudito convintamente, non a Moro e alla sua scorta, ma ai terroristi. Francesco Dicataldo lo sapeva bene e naturalmente cercava di stare attento. Era un agente particolarmente apprezzato, non solo dai suoi colleghi e superiori, ma persino da tanti detenuti per la sua correttezza ed umanità. Tratti di un carattere ben lontano dal "torturatore di detenuti" descritto dal delirante comunicato delle Brigate Rosse Colonna "Walter Alasia" che ne rivendicava l'assassinio, avvenuto alle 7:30 circa del 20 aprile 1978 presso la fermata dell'autobus di Milano Lambrate mentre il maresciallo si recava al lavoro.
Per questo tale ferita non può che rimanere "aperta", come scritto dal presidente del consiglio comunale di Barletta Sabino Dicataldo nel comunicato di ringraziamento rivolto al Presidente del Consiglio Draghi, al presidente francese Macron per aver permesso di assicurare finalmente alla giustizia gli autori di questo e di tanti altri crimini tanto efferati quanto insensati.