Il rutto liberatorio dello scandalo
A cura di Sabrina Papagni
È il 15 dicembre 1969. In via Fatebenefratelli alcuni passanti vedono il corpo di un uomo volare dal quarto piano dell'edificio Collegio Longone, lo storico palazzo della questura della città di Milano.
Quell'uomo era l'anarchico Giuseppe Pinelli, sottoposto accusato della famosa Strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969). Ufficialmente il caso fu chiuso attribuendo la caduta di Pinelli ad un malore accusato dall'anarchico durante l'interrogatorio.
È il 20 luglio 2001. A Genova infiamma la protesta contro il G8, e il manifestante Carlo Giuliani viene ucciso da un carabiniere, indagato ma subito prosciolto.
È il 22 ottobre 2009. A Roma il trentunenne Stefano Cucchi muore mentre è in custodia cautelare, essendo stato trovato in possesso di sostanze illegali. La morte, inizialmente giudicata causa di abbandono terapeutico, è in realtà colpa delle violente percosse subite da Cucchi ad opera dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele d'Alessandro, condannati a dieci anni di distanza dai fatti per omicidio preterintenzionale.
Potremmo continuare per molto ad elencare eventi simili. Gli "abusi in divisa", così vengono chiamati, soprattutto durante i cortei e le manifestazioni, sono pane quotidiano di ogni nazione democratica e liberale che si rispetti. Mascherati come atti che garantiscono l'ordine pubblico, o a volte anche come atti di legittima difesa, le forze dell'ordine dimostrano da sempre di essere il braccio armato del potere politico.
Nel 1970, due dei più grandi attori della scena italiana contemporanea decidono di denunciare questi abusi nel modo migliore che conoscono: scrivendo una pièce teatrale. Nell'ex fabbrica del capannone di Via Colletta a Milano, Dario Fo e Franca Rame, la sua compagna nella vita e sulla scena, debuttano con Morte accidentale di un anarchico, che per ragioni legali fingono essere ispirato all'episodio di Sacco e Vanzetti, anche se il riferimento a Pinelli era più che chiaro.
Così Franca Rame spiega cosa spinse lei e il Giullare, con la loro storica compagnia teatrale La Comune a scrivere uno spettacolo sulla morte di Pinelli.E invece no. Bisognava far caciara, con ogni mezzo: perché la gente che è sempre distratta, che legge poco e male e solo quel che passa il convento, sapesse come lo Stato può organizzare il massacro e gestire il pianto, lo sdegno, le medaglie alle vedove e agli orfani, e i funerali con i carabinieri sull'attenti che fanno il presentatarm. [1]
Per la sceneggiatura di questo spettacolo Fo e Rame si attennero ai dialoghi riportati dai documenti autentici, inquanto «nulla eguaglia, come nella realtà, la stupidità degli uomini, specie quando costoro detengono il potere!»[2].
Semplice e trasparente il messaggio che traspare da queste poche righe: non si tratta, come spesso si sente dire, di "poche mele marce", bensì della corruzione dell'intero sistema. Le forze dell'ordine sono burattini obbedienti nelle mani dello Stato, ovvero dalla forza politica egemone in un dato momento. Il loro stesso addestramento è basato sul rispetto delle gerarchie e soprattutto sull'obbedienza cieca degli ordini impartiti. La sorveglianza gerarchica, la sanzione normalizzatrice e l'esame sono i mezzi con i quali si forma il buon soldato. Egli non ha il compito di pensare, ma di agire, di rispondere ad uno stimolo al quale viene educato durante l'addestramento. Proprio come spiega Foucault, il potere utilizza la disciplina, con le sue tecniche di classificazione, esame, registrazione per rendere docili i corpi, per dominare la molteplicità e sfruttarne la forza:
La divisa ti fa sentire potente. Oltre la legge. Giustizieri super partes che credono di avere la verità in tasca, esempi perfetti dell'illusione che Scheingold descriveva già negli anni Novanta con il cosiddetto "mito della criminalità e della pena", che consiste in una rappresentazione morale quasi manichea, che semplicisticamente guarda al mondo come diviso tra il male, i criminali, e il bene, l'apparato statale che assicura la "giustizia", nel quale la pena e gli atti di coloro che la assicurano (le forze dell'ordine, i giudici, ecc.) sono eticamente considerati "giusti".Esisteva anche un sogno militare della società: esso si riferiva non allo stato di natura, ma agli ingranaggi accuratamente subordinati di una macchina, non al contratto punitivo, ma a coercizioni permanenti, non ai diritti fondamentali, ma ad addestramenti indefinitamente progressisti, non alla volontà generale, ma alla docilità automatica.[3]
Quell'idea che il professor Dario Melossi chiama "sillogismo legale" (l'idea diffusa e legata al senso comune secondo cui la pena è conseguenza semplice e diretta della criminalità) è così radicata che riesce perfettamente a nascondere la vera natura delle "narrazioni criminologiche", il suo carattere intrinsecamente politico[4], dimostrato dall'inesistenza di proporzionalità tra l'andamento della criminalità e le riforme delle politiche penali. E se il codice penale è l'esito dei giochi di potere tra le forze politiche dominanti che vogliono assicurarsi una certa protezione contro i "nemici", le forze dell'ordine sono il loro braccio armato, gli esecutori di tale codice che permetterà loro di mantenere lo stato delle cose presenti, facendo sì inoltre che la legge venga percepita come un assoluto immutabile e soprattutto indiscutibile, tramite certe narrazioni che insistono sulla tradizione, sulla giustizia, sulla sicurezza.
COMMISSARIO BERTOZZO: Qui, però, non c'è nel tuo curriculum che tu abbia fatto il giudice… e nemmeno l'avvocato.
MATTO: Ah no, l'avvocato non lo farei mai. A me non piace difendere, è un'arte passiva; a me piace giudicare… condannare… reprimere… perseguitare! Io sono uno dei vostri… caro commissario! Diamoci pure del tu!
Con il suo classico stile irriverente e sarcastico, Dario Fo denuncia la repressività dell'apparato giudiziario, tramite gli occhi sinceri e schietti di un matto ammaliato dal potere che l'istituzione poliziesca incarna.
«Sapete che la polizia... nessuno meglio di loro… depistare e insabbiare sono le loro prerogative massime» (Dario Fo prima di una delle tante repliche dello spettacolo).
Non c'è dunque da meravigliarsi pensando ai carabinieri di Piacenza, soprattutto al fatto che tutti sapessero cosa accadeva in quella che adesso viene chiamata "caserma degli orrori", ma nessuno avesse il coraggio di parlare. Lo "scandalo" che ha investito l'Italia, l'indignazione di politici e dei carabinieri che invece "onorano la divisa", lo stupore di chi non avrebbe mai pensato che cose del genere potessero accadere in una caserma: proprio come Fo fa dire al Matto nello spettacolo sopracitato, al cittadino medio non serve che queste "ingiustizie" scompaiano. A lui basta riuscire a parlarne liberamente, attraverso lo scoppio dello scandalo. In questo il cittadino medio si sente libero, ai suoi occhi giustizia è fatta, la verità è uscita allo scoperto. Sullo scandalo si fonda il potere, e attraverso esso si mantiene.
Ma qual è la vera ragione del grande successo di questo spettacolo? Non tanto lo sghignazzo che provocano le ipocrisie, le menzogne organizzate – a dir poco – in modo becero e grossolano dagli organi costituiti e dalle autorità ad essi preposte (giudici, commissari, questori, prefetti, sottosegretari e ministri), quanto soprattutto il discorso sulla socialdemocrazia e le sue lacrime da coccodrillo, l'indignazione che si placa attraverso il ruttino dello scandalo, lo scandalo come catarsi liberatoria del sistema. Il rutto liberatorio che esplode spandendosi nell'aria quando si viene a scoprire che massacri, truffe, assassinii sono organizzati e messi in atto proprio dallo Stato e dagli organi che ci dovrebbero proteggere. Così la grande catarsi si realizza nello scoprire che sono proprio le stesse istituzioni, gli organi che hanno progettato e realizzato crimini orrendi contro la popolazione, a puntare il dito accusatore contro sé stessi, al grido: «siamo una democrazia civile, la giustizia farà il suo corso! »[5]