Cara Barletta ti scrivo
Sulla morte di Amhed, «non siamo riusciti a strapparlo all'isolamento nel quale si stava condannando»
Una lettera di don Angelo Dipasquale
sabato 20 febbraio 2021
12.35
Qualche giorno fa la nostra città ha appreso con dolore della morte di un clochard di nome Amhed, originario del marocco, ritrovato senza vita all'interno della vecchia stazione della teleferica adibita anticamente al trasporto del sale dalla vicina Margherita di Savoia a Barletta. Un evento che ha toccato il cuore di tutti e in modo particolare dei fedeli residenti nel territorio della parrocchia di San Benedetto, innanzi alla quale, ormai da tanti mesi, stazionava Amhed. In questi giorni, oltre al doveroso richiamo circa i doveri di ogni buon cittadino e di ogni buon cristiano, c'è stato anche il tempo della polemica e dell'accusa, in modo particolare nei riguardi dell'istituzione ecclesiastica, giudicata rea di insofferente disinteresse nei riguardi di quanti vivono situazioni di precarietà e bisogno e tutta impegnata a pensare a se stessa e al benessere dei suoi ministri. Oltre a ricordare come la chiesa di Barletta "forse" in tante circostanze, si è espressa come l'unico presidio a tutela di tanti bisognosi tramite i centri caritas parrocchiali e il centro caritas cittadino, è bene per chi conosce la verità, fare un po' di chiarezza in merito a questa triste vicenda ripercorrendo brevemente la storia di questo nostro fratello.
Era a tutti evidente che Amhed vivesse in situazioni di assoluta precarietà: oltre alla evidente povertà economica era purtroppo schiavo di una fortissima dipendenza da alcol che lo portava costantemente a non essere consapevole dei gesti che compiva. Più volte ci siamo trovati a gestire situazioni abbastanza imbarazzanti nelle quali non è opportuno entrare con chiarezza, ma che nonostante tutto hanno trovato in noi sacerdoti e nei fedeli che entravano e uscivano dalla parrocchia, molta pazienza e comprensione. Sia noi che la gente non lo abbiamo mai avvertito come un problema da risolverema, proprio per tutelare la sua dignità, abbiamo più volte tentato di chiedere l'aiuto delle autorità competenti che, nonostante tutte le sollecitazioni, hanno ritenuto di non potersi prendere carico con noi di questa situazione.
Va sottolineato chiaramentet uttavia che Amhed non era disponibile ad accogliere nessun tipo di aiuto: più e più volte gli abbiamo suggerito di venire con noi al centro caritas per mangiare, dormire, vestirsi con abiti puliti, ma non ha mai accettato. La caritas cittadina infatti oltre ai servizi stabili come la mensa, il dormitorio, la lavanderia, l'offerta di consulenze mediche gratuite, proprio durante i giorni di freddo intenso ha intensificato l'assistenza dei suoi volontari nei luoghi di riparo abitati da tanti in difficoltà e ha aggiunto in altri spazi, ulteriori posti letto per i tanti bisognosi di passaggio. Abbiamo tutti tentato di assistere Amhed secondo i mezzi a nostra disposizione ma non siamo riusciti a strapparlo all'isolamento nel quale da se stesso, purtroppo, si stava condannando.
Gli unici aiuti che siamo riusciti a convincerlo di accettare sono stati un piccolo sgabello per evitare che stesse costantemente seduto per terra sul sagrato della chiesa e la possibilità di usufruire dei servizi igienici anche per una normale doccia. Gli stessi volontari della nostra caritas cittadina che con sollecitudine hanno visitato quei luoghi da tanti conosciuti ma considerati come inesistenti o come un problema da non poter risolvere per mancanza, da parte delle autorità a ciò preposte, di mezzi economici e di strutture, pure avendolo sollecitato ad andare con loro, non sono riusciti a spostarlo di li. Né avrebbero potuto farlo con la forza: se l'avessero fatto sarebbero stati tacciati di mancanza di rispetto per la libertà dell'individuo! Non è questa ovviamente un difesa d'ufficio della realtà ecclesiale, l'evento così come accaduto ancora ci interpella circa il fatto che si possa fare di più e meglio, ma puntare il dito come se l'esercizio della carità fosse solo esclusivo di preti e suore e non atteggiamento fondamentale nella vita di ogni credente, è un atto irresponsabile di autoassoluzione e di giustificazione circa il proprio personale disinteresse.
La nostra comunità parrocchiale addolorata per la notizia della morte di Amhed ha voluto pregare per lui non solo nella celebrazione eucaristica ma anche durante la via crucis del primo venerdì di Quaresima.
Sotto l'effige del Crocifisso collocata sull'altare, è stato collocato lo sgabello che utilizzava costantemente, monito silenzioso che ha richiamato ancor più forte a tutti il dovere della carità come atto di personale responsabilità innanzi a Dio. Facciamo tutti in modo che questi spiacevoli eventi -che non devono toccare solo la corda della nostra emotività ma la determinazione del nostro impegno-, non accadano più e impariamo che li dove una esistenza trova il suo triste epilogo senza alcuna dignità, la sconfitta è di tutti!».
Don Angelo Dipasquale, parroco della comunità di San Benedetto
Era a tutti evidente che Amhed vivesse in situazioni di assoluta precarietà: oltre alla evidente povertà economica era purtroppo schiavo di una fortissima dipendenza da alcol che lo portava costantemente a non essere consapevole dei gesti che compiva. Più volte ci siamo trovati a gestire situazioni abbastanza imbarazzanti nelle quali non è opportuno entrare con chiarezza, ma che nonostante tutto hanno trovato in noi sacerdoti e nei fedeli che entravano e uscivano dalla parrocchia, molta pazienza e comprensione. Sia noi che la gente non lo abbiamo mai avvertito come un problema da risolverema, proprio per tutelare la sua dignità, abbiamo più volte tentato di chiedere l'aiuto delle autorità competenti che, nonostante tutte le sollecitazioni, hanno ritenuto di non potersi prendere carico con noi di questa situazione.
Va sottolineato chiaramentet uttavia che Amhed non era disponibile ad accogliere nessun tipo di aiuto: più e più volte gli abbiamo suggerito di venire con noi al centro caritas per mangiare, dormire, vestirsi con abiti puliti, ma non ha mai accettato. La caritas cittadina infatti oltre ai servizi stabili come la mensa, il dormitorio, la lavanderia, l'offerta di consulenze mediche gratuite, proprio durante i giorni di freddo intenso ha intensificato l'assistenza dei suoi volontari nei luoghi di riparo abitati da tanti in difficoltà e ha aggiunto in altri spazi, ulteriori posti letto per i tanti bisognosi di passaggio. Abbiamo tutti tentato di assistere Amhed secondo i mezzi a nostra disposizione ma non siamo riusciti a strapparlo all'isolamento nel quale da se stesso, purtroppo, si stava condannando.
Gli unici aiuti che siamo riusciti a convincerlo di accettare sono stati un piccolo sgabello per evitare che stesse costantemente seduto per terra sul sagrato della chiesa e la possibilità di usufruire dei servizi igienici anche per una normale doccia. Gli stessi volontari della nostra caritas cittadina che con sollecitudine hanno visitato quei luoghi da tanti conosciuti ma considerati come inesistenti o come un problema da non poter risolvere per mancanza, da parte delle autorità a ciò preposte, di mezzi economici e di strutture, pure avendolo sollecitato ad andare con loro, non sono riusciti a spostarlo di li. Né avrebbero potuto farlo con la forza: se l'avessero fatto sarebbero stati tacciati di mancanza di rispetto per la libertà dell'individuo! Non è questa ovviamente un difesa d'ufficio della realtà ecclesiale, l'evento così come accaduto ancora ci interpella circa il fatto che si possa fare di più e meglio, ma puntare il dito come se l'esercizio della carità fosse solo esclusivo di preti e suore e non atteggiamento fondamentale nella vita di ogni credente, è un atto irresponsabile di autoassoluzione e di giustificazione circa il proprio personale disinteresse.
La nostra comunità parrocchiale addolorata per la notizia della morte di Amhed ha voluto pregare per lui non solo nella celebrazione eucaristica ma anche durante la via crucis del primo venerdì di Quaresima.
Sotto l'effige del Crocifisso collocata sull'altare, è stato collocato lo sgabello che utilizzava costantemente, monito silenzioso che ha richiamato ancor più forte a tutti il dovere della carità come atto di personale responsabilità innanzi a Dio. Facciamo tutti in modo che questi spiacevoli eventi -che non devono toccare solo la corda della nostra emotività ma la determinazione del nostro impegno-, non accadano più e impariamo che li dove una esistenza trova il suo triste epilogo senza alcuna dignità, la sconfitta è di tutti!».
Don Angelo Dipasquale, parroco della comunità di San Benedetto