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La missione in Congo della barlettana Alessandra Giudiceandrea: «È un onore far parte di Medici Senza Frontiere»
Da Barletta, ha sempre desiderato viaggiare. Oggi lo fa come capomissione
Barletta - venerdì 22 luglio 2022
«Io ho sempre desiderato viaggiare. Tutto è nato come una curiosità, quella di conoscere nuove culture, nuove religioni, scoprire idee e conoscere gente perché quello che mi ha sempre più affascinato è che nella diversità, l'essere umana ha delle dimensioni che si somigliano» inizia così Alessandra Giudiceandrea, operatrice umanitaria di Medici Senza Frontiere.
«Sta passando un elicottero sopra di me, non spaventarti» è stata la prima premura che ha avuto. Ha lasciato Barletta a 19 anni, prima per seguire gli studi a Forlì, poi per lavorare nelle organizzazioni umanitarie. Quello che l'ha spinta ad entrare in Medici Senza Frontiere è stato il principio d'indipendenza, aspetto che l'ha lasciata folgorata, per la fermezza nel rispettare valori come la neutralità e l'imparzialità. «Per noi sembrano cose ovvio, ma in realtà appartenere ad una fazione o ad un'altra può fare la differenza tra la vita e la morte».
Alessandra Giudiceandrea è consapevole di quanto il suo lavoro insieme a quello di moltissimi altri possa fare la differenza, trovandosi in contesti in cui le violenze sono ancora moltissime e la popolazione civile paga un prezzo troppo alto. «A me ha sempre interessato andare oltre le apparenze e realizzare un contatto umano» dice. «È un onore far parte di Medici Senza Frontiere» ribadendo quanto le solida fondamenta di questa organizzazione internazionale non governativa, siano dignità e gratuità. Durante questi anni, sono state diverse le missioni a cui ha partecipato fino a diventare capomissione, una responsabilità grande che rende Alessandra onorata di questo ruolo. «Ricordo facce, sorrisi e tanti pianti. Quando giri il mondo per questi scopi, tutto diventa insegnamento. Nel tempo, ho vissuto in contesti molto diversi, per esempio il terremoto di Haiti del 2010 e poi quello del 2021, le tensioni in Congo ed è proprio nella Repubblica democratica del Congo che risiede stabilmente da febbraio.
Racconta di essere tornata da poco da Masisi, città e territorio della Provincia del Kivu Nord nella Repubblica Democratica del Congo. Qui si è adoperata in una struttura di accoglienza per donne prossime al parto, vicina ad un ospedale così da poterle trasportare velocemente in caso di necessità. «Sono stata lì 10 anni e avendo visto trascorrere molte storie, posso dire che è un'attività molto popolata, sia da parte delle pazienti che dai medici. Stare lì ha significato stare a contatto con la comunità, guadagnarsi la fiducia e ascoltare gli adolescenti educandoli nella prevenzione contro HIV».
I ritmi, l'impegno, la devozione assorbono Alessandra, senza però dimenticare la terra natale: «Ci sono momenti in cui fisiologicamente casa ti manca e ci sono momenti in cui casa diventa qualsiasi posto è intorno». Proprio nei momenti di ritorno, ci parla di una certa fatica nel raccontare la sua vita da operatrice umanitaria: «A volte ho fatica a spiegare ciò che faccio perché si ha una visione un po' troppo romantica di questo lavoro, soprattutto perché significa parlare della parte più brutta dell'essere umano».
Conclude lasciando una potete riflessione: «Noi diciamo sempre che l'obiettivo dell'umanitario è l'essere inutile, ma visto l'andazzo lo ritengo un po' difficile. Inoltre spesso, si crede che si debba andare in paesi lontani per fare qualcosa, quando il realtà il nostro comportamento nel quotidiano fa la differenza».
«Sta passando un elicottero sopra di me, non spaventarti» è stata la prima premura che ha avuto. Ha lasciato Barletta a 19 anni, prima per seguire gli studi a Forlì, poi per lavorare nelle organizzazioni umanitarie. Quello che l'ha spinta ad entrare in Medici Senza Frontiere è stato il principio d'indipendenza, aspetto che l'ha lasciata folgorata, per la fermezza nel rispettare valori come la neutralità e l'imparzialità. «Per noi sembrano cose ovvio, ma in realtà appartenere ad una fazione o ad un'altra può fare la differenza tra la vita e la morte».
Alessandra Giudiceandrea è consapevole di quanto il suo lavoro insieme a quello di moltissimi altri possa fare la differenza, trovandosi in contesti in cui le violenze sono ancora moltissime e la popolazione civile paga un prezzo troppo alto. «A me ha sempre interessato andare oltre le apparenze e realizzare un contatto umano» dice. «È un onore far parte di Medici Senza Frontiere» ribadendo quanto le solida fondamenta di questa organizzazione internazionale non governativa, siano dignità e gratuità. Durante questi anni, sono state diverse le missioni a cui ha partecipato fino a diventare capomissione, una responsabilità grande che rende Alessandra onorata di questo ruolo. «Ricordo facce, sorrisi e tanti pianti. Quando giri il mondo per questi scopi, tutto diventa insegnamento. Nel tempo, ho vissuto in contesti molto diversi, per esempio il terremoto di Haiti del 2010 e poi quello del 2021, le tensioni in Congo ed è proprio nella Repubblica democratica del Congo che risiede stabilmente da febbraio.
Racconta di essere tornata da poco da Masisi, città e territorio della Provincia del Kivu Nord nella Repubblica Democratica del Congo. Qui si è adoperata in una struttura di accoglienza per donne prossime al parto, vicina ad un ospedale così da poterle trasportare velocemente in caso di necessità. «Sono stata lì 10 anni e avendo visto trascorrere molte storie, posso dire che è un'attività molto popolata, sia da parte delle pazienti che dai medici. Stare lì ha significato stare a contatto con la comunità, guadagnarsi la fiducia e ascoltare gli adolescenti educandoli nella prevenzione contro HIV».
I ritmi, l'impegno, la devozione assorbono Alessandra, senza però dimenticare la terra natale: «Ci sono momenti in cui fisiologicamente casa ti manca e ci sono momenti in cui casa diventa qualsiasi posto è intorno». Proprio nei momenti di ritorno, ci parla di una certa fatica nel raccontare la sua vita da operatrice umanitaria: «A volte ho fatica a spiegare ciò che faccio perché si ha una visione un po' troppo romantica di questo lavoro, soprattutto perché significa parlare della parte più brutta dell'essere umano».
Conclude lasciando una potete riflessione: «Noi diciamo sempre che l'obiettivo dell'umanitario è l'essere inutile, ma visto l'andazzo lo ritengo un po' difficile. Inoltre spesso, si crede che si debba andare in paesi lontani per fare qualcosa, quando il realtà il nostro comportamento nel quotidiano fa la differenza».