Eventi
Fabrizio Sinisi: «Il teatro? Arte antica e primordiale»
Intervista al giovane drammaturgo barlettano
Barletta - giovedì 17 marzo 2016
Dopo il successo de "Gl'innamorati", la compagnia Teatro dei Borgia ritornerà dal 18 al 20 marzo sul palcoscenico del teatro "Curci" di Barletta con "La Locandiera", secondo capitolo di una trilogia, il Progetto Goldoni. In esclusiva per BarlettaViva, abbiamo incontrato Fabrizio Sinisi - talentuoso drammaturgo, poeta e traduttore barlettano - che ha riscritto il capolavoro goldoniano in chiave moderna e gli abbiamo rivolto alcune domande.
Come e quando nasce la sua passione per il teatro?
«Già nei primi anni del liceo, recitavo in una piccola compagnia di Barletta e scrivevo testi per conto mio. Poi negli anni dell'Università, a Bari, ho incontrato Sandro Lombardi, uno fra i più importanti attori del teatro italiano. Gli feci leggere alcune cose mie, e inaspettatamente gli piacquero molto. Mi propose una piccola collaborazione con la compagnia che insieme al regista Federico Tiezzi ha fondato a Firenze negli anni Settanta e che è oggi fra le più importanti in Italia. Lo spettacolo era I Promessi Sposi alla prova di Giovanni Testori, debuttammo al Piccolo di Milano nell'ottobre 2010. Per me tutto è iniziato lì. Un anno dopo sono diventato drammaturgo stabile della compagnia, incarico che ricopro tuttora».
Facili Cassandre evocano da sempre la morte del teatro. Qual è la sua personale definizione di teatro e quale creda possa essere il suo futuro?
«Di morte del teatro parlavano già Platone e Aristotele, era il quinto secolo avanti Cristo, e siamo ancora qui a parlarne. Evidentemente il teatro ha bisogno, per vivere, di sentirsi sempre nell'imminenza di scomparire. Penso che il teatro sia la forma d'arte più antica e primordiale, quella che coincide con l'uomo stesso: imitare l'essenza delle cose, rendere visibile ed esemplare ciò di cui non si parla mai. È uno dei modi più forti che l'essere umano ha di svelare se stesso, di esprimere la forma di un rapporto col mondo. Sopprimere qualcosa di così umano è molto più difficile di quanto si creda. Da un punto di vista pratico, invece, credo che molti assetti strutturali e anche politici saranno per forza di cose costretti a cambiare: una certa idea di teatro statale è storicamente, evidentemente finita. È un'epoca di passaggio, in cui l'invenzione di nuove forme di sostentamento e produzione forse è necessaria quasi quanto quella delle forme specificamente artistiche. Non vorrei essere enfatico, ma credo che i nuovi direttori-manager dei teatri siano chiamati a un compito storico non meno decisivo di quello che hanno avuto i registi nel cosiddetto teatro d'arte del secondo dopoguerra. La riformulazione del sistema teatrale italiano in questo momento passa da lì».
Brecht diceva "Tutte le arti contribuiscono all'arte più importante, l'arte del vivere". Cosa può dunque ancora insegnare un'arte nobile come il teatro ad una società come quella odierna sempre più frenetica, distratta e celata dietro le tastiere di un pc o uno smartphone?
«È molto giusta e bella la citazione di Brecht che riporti, perché è esattamente questo. Il teatro non insegna dei valori o degli argomenti, ma una vita: la necessità del presente e della presenza, dell'essere umani qui e ora, dell'essere corpo, sguardo, in un rapporto con le cose non mediato dalla chiacchiera. In teatro sei tu in rapporto con un altro. Il teatro insegna il privilegio dell'evento: si va a teatro non tanto sperando di imparare qualcosa, ma che accada qualcosa. Che è un po' la speranza della vita stessa: che accada qualcosa, che le cose finalmente succedano».
Dal 18 marzo il teatro Curci ospiterà un altro suo lavoro, la radicale riscrittura de "La locandiera". Da cosa nasce l'esigenza di ritornare dopo "Gli Innamorati" a Goldoni con il suo ultimo lavoro?
«La locandiera è il secondo capitolo di una trilogia, il Progetto Goldoni, che insieme al regista Gianpiero Borgia e alla sua compagnia Teatro dei Borgia abbiamo cominciato ormai quasi due anni fa con Gl'innamorati. Si tratta di una scommessa su due livelli: tentare una riscrittura e una riattuazione delle commedie di Goldoni non più in Veneto ma nel Sud, non più nel Settecento ma oggi. Il tutto filtrato nella sensibilità di uno scrittore come me, che viene dal teatro di poesia, e di un regista come Borgia, che viene dal teatro russo e dal metodo Stanislavskij».
Qual è il suo legame con l'autore e quanto possono essere attuali le sue tematiche oggi?
«Goldoni, in Italia, non è semplicemente un autore di commedie ma è la commedia. Le caratteristiche dei suoi testi sono diventate canoniche nella concezione italiana del comico: i caratteri al posto dei personaggi, il denaro come motore dell'azione, il cortocircuito fra classi sociali. Qualunque autore di commedia in Italia, anche al cinema, consapevolmente o meno, riscrive Goldoni. Ma gli schemi che Goldoni nel Settecento disegnava nel loro inizio, oggi le sorprendiamo nel loro tramonto. Ad esempio la questione della borghesia: quella di Goldoni è in ascesa, quella di oggi è in agonia, non ha nessuna energia storica propulsiva, non produce più cultura. La commedia ha sempre fatto anche questo: registrare lo stato delle cose del loro tempo: riscrivendo Goldoni, stiliamo una specie di "rapporto sullo stato presente del costume"».
Può svelare ai lettori di BarlettaViva qualche anticipazione sullo spettacolo, frutto del sodalizio già testato con il Tetro dei Borgia?
«Tutto si svolge in un lido balneare decaduto: c'è una presenza del mare molto forte, una specie di sesto personaggio. Gli attori sono cinque: a Gianpiero Borgia, anche regista, e alla protagonista Elena Cotugno – già protagonisti degli Innamorati – si aggiungono Franco Ferrante, Giovanni Guardiano e Pio Stellaccio. Ognuno ha una sua linea recitativa, una sua cifra stilistica autonoma e personale. Questa Locandiera perciò funziona come un quartetto d'archi intorno a un fulcro, Mirandolina, che costituisce il vero centro del racconto: la donna con la D maiuscola, ovvero la donna così come l'uomo la percepisce. Nel bene o nel male infatti – ed è tutto il discorso della Locandiera goldoniana – la donna per l'uomo è sempre l'Idolo: ciò che si adora e si persegue sempre, e non si capisce mai».
Come e quando nasce la sua passione per il teatro?
«Già nei primi anni del liceo, recitavo in una piccola compagnia di Barletta e scrivevo testi per conto mio. Poi negli anni dell'Università, a Bari, ho incontrato Sandro Lombardi, uno fra i più importanti attori del teatro italiano. Gli feci leggere alcune cose mie, e inaspettatamente gli piacquero molto. Mi propose una piccola collaborazione con la compagnia che insieme al regista Federico Tiezzi ha fondato a Firenze negli anni Settanta e che è oggi fra le più importanti in Italia. Lo spettacolo era I Promessi Sposi alla prova di Giovanni Testori, debuttammo al Piccolo di Milano nell'ottobre 2010. Per me tutto è iniziato lì. Un anno dopo sono diventato drammaturgo stabile della compagnia, incarico che ricopro tuttora».
Facili Cassandre evocano da sempre la morte del teatro. Qual è la sua personale definizione di teatro e quale creda possa essere il suo futuro?
«Di morte del teatro parlavano già Platone e Aristotele, era il quinto secolo avanti Cristo, e siamo ancora qui a parlarne. Evidentemente il teatro ha bisogno, per vivere, di sentirsi sempre nell'imminenza di scomparire. Penso che il teatro sia la forma d'arte più antica e primordiale, quella che coincide con l'uomo stesso: imitare l'essenza delle cose, rendere visibile ed esemplare ciò di cui non si parla mai. È uno dei modi più forti che l'essere umano ha di svelare se stesso, di esprimere la forma di un rapporto col mondo. Sopprimere qualcosa di così umano è molto più difficile di quanto si creda. Da un punto di vista pratico, invece, credo che molti assetti strutturali e anche politici saranno per forza di cose costretti a cambiare: una certa idea di teatro statale è storicamente, evidentemente finita. È un'epoca di passaggio, in cui l'invenzione di nuove forme di sostentamento e produzione forse è necessaria quasi quanto quella delle forme specificamente artistiche. Non vorrei essere enfatico, ma credo che i nuovi direttori-manager dei teatri siano chiamati a un compito storico non meno decisivo di quello che hanno avuto i registi nel cosiddetto teatro d'arte del secondo dopoguerra. La riformulazione del sistema teatrale italiano in questo momento passa da lì».
Brecht diceva "Tutte le arti contribuiscono all'arte più importante, l'arte del vivere". Cosa può dunque ancora insegnare un'arte nobile come il teatro ad una società come quella odierna sempre più frenetica, distratta e celata dietro le tastiere di un pc o uno smartphone?
«È molto giusta e bella la citazione di Brecht che riporti, perché è esattamente questo. Il teatro non insegna dei valori o degli argomenti, ma una vita: la necessità del presente e della presenza, dell'essere umani qui e ora, dell'essere corpo, sguardo, in un rapporto con le cose non mediato dalla chiacchiera. In teatro sei tu in rapporto con un altro. Il teatro insegna il privilegio dell'evento: si va a teatro non tanto sperando di imparare qualcosa, ma che accada qualcosa. Che è un po' la speranza della vita stessa: che accada qualcosa, che le cose finalmente succedano».
Dal 18 marzo il teatro Curci ospiterà un altro suo lavoro, la radicale riscrittura de "La locandiera". Da cosa nasce l'esigenza di ritornare dopo "Gli Innamorati" a Goldoni con il suo ultimo lavoro?
«La locandiera è il secondo capitolo di una trilogia, il Progetto Goldoni, che insieme al regista Gianpiero Borgia e alla sua compagnia Teatro dei Borgia abbiamo cominciato ormai quasi due anni fa con Gl'innamorati. Si tratta di una scommessa su due livelli: tentare una riscrittura e una riattuazione delle commedie di Goldoni non più in Veneto ma nel Sud, non più nel Settecento ma oggi. Il tutto filtrato nella sensibilità di uno scrittore come me, che viene dal teatro di poesia, e di un regista come Borgia, che viene dal teatro russo e dal metodo Stanislavskij».
Qual è il suo legame con l'autore e quanto possono essere attuali le sue tematiche oggi?
«Goldoni, in Italia, non è semplicemente un autore di commedie ma è la commedia. Le caratteristiche dei suoi testi sono diventate canoniche nella concezione italiana del comico: i caratteri al posto dei personaggi, il denaro come motore dell'azione, il cortocircuito fra classi sociali. Qualunque autore di commedia in Italia, anche al cinema, consapevolmente o meno, riscrive Goldoni. Ma gli schemi che Goldoni nel Settecento disegnava nel loro inizio, oggi le sorprendiamo nel loro tramonto. Ad esempio la questione della borghesia: quella di Goldoni è in ascesa, quella di oggi è in agonia, non ha nessuna energia storica propulsiva, non produce più cultura. La commedia ha sempre fatto anche questo: registrare lo stato delle cose del loro tempo: riscrivendo Goldoni, stiliamo una specie di "rapporto sullo stato presente del costume"».
Può svelare ai lettori di BarlettaViva qualche anticipazione sullo spettacolo, frutto del sodalizio già testato con il Tetro dei Borgia?
«Tutto si svolge in un lido balneare decaduto: c'è una presenza del mare molto forte, una specie di sesto personaggio. Gli attori sono cinque: a Gianpiero Borgia, anche regista, e alla protagonista Elena Cotugno – già protagonisti degli Innamorati – si aggiungono Franco Ferrante, Giovanni Guardiano e Pio Stellaccio. Ognuno ha una sua linea recitativa, una sua cifra stilistica autonoma e personale. Questa Locandiera perciò funziona come un quartetto d'archi intorno a un fulcro, Mirandolina, che costituisce il vero centro del racconto: la donna con la D maiuscola, ovvero la donna così come l'uomo la percepisce. Nel bene o nel male infatti – ed è tutto il discorso della Locandiera goldoniana – la donna per l'uomo è sempre l'Idolo: ciò che si adora e si persegue sempre, e non si capisce mai».