Barlettani nel mondo
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La città

Beatrice, giovane infermiera barlettana al Centro Nazionale Tumori di Milano

«Già sapevo quanto Barletta fosse una bellissima città, adesso posso confermarlo e gridarlo»

"C'è sempre voglia di confrontarsi con qualcosa di nuovo e di riuscire", da sempre questa è stata la motivazione che ha spinto Beatrice Dibenedetto, barlettana adesso trapiantata a Milano, a lanciarsi in un mondo professionale arduo e complesso come quello sanitario. Studentessa modello negli anni del liceo e poi in quelli universitari, subito dopo aver conseguito la laurea in Infermieristica, presso l'Università degli Studi di Bari, Beatrice ha iniziato a confrontarsi con diverse realtà sanitarie, lavorando prima a Canosa e poi a Modena, mentre dallo scorso ottobre ha intrapreso un percorso lavorativo presso l'Isituto Nazionale dei Tumori di Milano, in cui lavora tutt'ora nel reparto di terapia intensiva.

Come mai, dopo aver affrontato degli studi classici, hai scelto di iscriverti alla facoltà d'Infermieristica?
«Principalmente la possibilità di trovare lavoro. Può sembrare una brutta risposta, ma purtroppo è la verità. Subito dopo il diploma feci un'indagine di mercato che mi portò a scegliere la facoltà che poi ho frequentato. Sicuramente sarebbe stato molto più semplice, per me, rispondere di avere la passione nell'assistere chi soffre, ma al 90% questo sarebbe stato falso, perchè il mio lavoro è molto stressante. Nel mio settore molti sono sentimentali, ma solo a parole, poi magari risulto essere l'unica che porti ai pazienti uno specchio ed un pettine per confortarli nella loro dignità di persona».

Cosa ti ha spinto ad orientarti verso aziende sanitarie fuori Barletta? Pensi di aver valutato tutte le possibilità che avevi nella tua città?
«Da quando ho conseguito il titolo di laurea, a dicembre 2011, ho notato l'impossibilità di accedere alle aziende pubbliche barlettane o anche a quelle dei dintorni, parliamo di tutta l'Asl, di Bari, di Foggia. Mi sono guardata intorno, per non restare campanilisticamente troppo incastrata a Barletta e, purtroppo, da quando mi sono laureata sino ad oggi, non c'è stata minimamente possibilità di un inserimento nella regione Puglia. Ho trovato un impiego in un'azienda privata a Canosa, in cui sono rimasta per un anno e mezzo. Oggi lavorare nel privato e nel pubblico sono due cose estremamente diverse. Nel privato spesso non ci sono contratti, si lavora solo con partita IVA. Per tutte queste motivazioni ho deciso di spostarmi, in altre regioni ho avuto la possibilità di lavorare in aziende pubbliche che fornissero tutti i diritti prestabiliti dal contratto nazionale. Sono stata un anno a Modena, trovandomi benissimo, tramite avviso pubblico, con un contratto in scadenza. Al termine di questo sono stata chiamata, accendendo alla graduatoria di un concorso, e per questo sono qui a Milano, ancora a tempo determinato, ma in attesa di una determinazione, per la quale mi mancano davvero pochissimi posti da scalare. Ho valutato molto bene tutte le possibilità che c'erano nella mia città, ma, purtroppo, non essendoci strutture private, ho preso atto che lavorare nel pubblico significava avere una grande fortuna, trovarsi al momento giusto nel posto giusto o essere raccomandati e questo in Italia è un fatto, una realtà e ne dobbiamo prendere atto, per questo ho deciso di orientarmi altrove».

Hai quindi avuto modo di conoscere il sistema organizzativo dell'Asl della nostra provincia e quello milanese? Potresti confrontarli?
«Spesso ci buttiamo giù pensando che il sud sia arretrato, non aggiornato, povero. In realtà il sistema nazionale forse è l'unico metro di paragone che ci permetta di comprendere come, tra nord e sud, non ci siano moltissime differenze. Ci sono delle realtà eccellenti come quella dell'Emilia Romagna, che ho conosciuto in prima persona o tipo la Toscana, mentre per il resto credo ci sia una povertà nell'organizzazione e nella gestione delle aziende sanitarie che credo sia comune sia al nord che al sud. Per esempio, in Piemonte, ci sono alcune aziende forse peggio organizzate rispetto alla realtà barlettana. Io nei miei tirocini ho visto gli ospedali di Andria, Trani, Barletta e posso dire che abbiamo dipendenti che ci tengono a migliorarsi, ad aggiornarsi, a creare protocolli che permettano di unificare il lavoro e standardizzarlo, che è la maniera più efficiente per ridurre il margine d'errore. Certo ci sono gravi difficoltà, ma quelle si riscontrano un pò ovunque».

Sei totalmente convinta delle scelte fatte fino ad ora?
«Sono convinta perchè spero che questo possa riportarmi poi a tornare a casa. A livello personale è un'esperienza che, comunque, rifarei perchè arricchisce e fortifica. E' importante imparare a stare da soli, a convivere con la solitudine, ad essere anche per questo più aperti e socievoli, insegna a coltivare i rapporti e a costruirne anche di nuovi partendo da zero».

Quindi qual è il più grande insegnamento che ti ha dato quest'esperienza fuori Barletta, fino a questo momento?
«Ho imparato che non bisogna vivere guardando solo il proprio orto. Bisogna vivere in altre realtà, confrontarsi con le diversità ed arricchirsi attraverso gli altri».

Qual è la prima cosa che hai notato inoltrandoti nella vita milanese?
«E' molto difficile vivere qui a Milano, la città è molto grande, dispersiva e per chi è abituato a vivere in una provincia è difficile ambientarsi. Ci sono troppe distanze che devi imparare a gestire. E' vero che c'è la metropolitana, ma per chi è un semplice cittadino di provincia è difficile. Milano non è una città sicura, c'è un'altissima presenza di criminalità il che spaventa tantissimo. Ma a prescindere da questo, sicuramente mi ha stupito come ci possano essere stili di vita così diversi, seppur restando nella stessa nazione. Qui c'è un attegiamento troppo severo nei confronti del lavoro. Salta subito agli occhi la differenza tra la persona del posto e chi viene dal sud. Spesso e volentieri qui c'è un eccessivo accanimento nei confronti del lavoro e quindi l'esigenza di competere ad ogni costo, vivendo in funzione del lavoro, cosa che io personalmente non accetto. Questo può essere un punto di forza, sicuramente quando c'è accanimento da parte dei dipendenti di un'aziende, nei confronti del lavoro stesso, è molto positivo, però questo atteggiamento qui si traduce in disumanità. Talvolta qualcosa di simile si verifica anche al sud, ma credo che da noi si abbia una maggiore consapevolezza della vita al di fuori del posto di lavoro: la vita è fatta di famiglia, amici, relazioni. Al sud si vive la vita a 360°, considerando il lavoro come uno degli aspetti della vita. Qui a Milano invece sembra che il lavoro sia la vita e questo per me è molto triste. Questo mi ha sconvolto, per me il lavoro è una parte della giornata, della vita, ma non è assolutamente quella più importante».

Adesso sei entrata da poco in un nuovo ed impegnativo reparto: terapia intensiva. Come stai vivendo quest'esperienza?
«Entrare in un nuovo reparto in generale già spaventa, ma c'è sempre il desiderio di misurarsi con qualcosa di nuovo. E' molto difficile in questo caso per me perchè sto affrontando uno dei reparti più impegnativi in assoluto in qualsiasi azienda sanitaria. Una realtà diversa, pesante, complessa. E' difficile l'inserimento per tutte queste ragioni ma permane sempre il desiderio di misurarsi e riuscire».

Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Ti manca Barletta?
«Tanto, tantissimo, infatti il mio più grande desiderio è quello di tornare a casa, il mio non è un capriccio per tornare dalla mia famiglia, dai miei amici. Il mio è un desiderio sorto dopo aver valutato. Già sapevo quanto Barletta fosse una bellissima città, adesso posso confermarlo e gridarlo. A Barletta si vive bene, il costo della vita non è eccessivo, si vive bene perchè c'è il mare, c'è tanta gente, in giro, per le strade, a qualsiasi ora. Barletta è una città più vivibile di Milano, perchè è più a misura d'uomo».
Beatrice Dibenedetto
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