Eventi
Angelo Nardelli 'prende il caffè' con Barlettalife
Intervista all'autore di 'Andavo a prendere il caffè da solo'. «La cultura del rispetto verso i diversamente abili è zero»
Barletta - mercoledì 15 giugno 2011
14.09
Ci sono incontri che anche se di breve durata, possono risultare molto più intensi e costruttivi di migliaia di minuti trascorsi a parlare del più e del meno con altre persone: è quanto è avvenuto a chi scrive incontrando Angelo Nardelli, ragazzone di 40 anni, al tempo stesso "ospite" e "animatore" della Casa-Famiglia dell'Unitalsi sita in via Regina Margherita, un autentico gioiellino di volontariato e solidarietà nel centro della città di Barletta. Angelo ha scritto nel 2006 il libro-autobiografia "Andavo a prendere il caffè da solo" (ed. Ad Maiora, 111 pp.), opera che vedrà venire alla luce la terza ristampa a breve. Noi di Barlettalife abbiamo avuto modo di incontrarlo, per un'intervista dai toni pacati ma accorati, nella quale si parla del libro e della sua quotidianità a Barletta:
Quando e perché è nata in te l'idea, la voglia di dar vita a questo libro?
«E' nata proprio per far sentire la voce dei disabili soli. Io ero un disabile solo, e ora mi sono riappacificato con la mia famiglia grazie alla professionalità del presidente Cosimo Cilli e di quanti lavorano nella casa-famiglia. Quest'opera ora è una realtà, siamo prossimi alla terza ristampa. Per me questo libro è un bigliettino da visita, per far capire che i disabili sono aiutati sempre, non sono mai soli. Non potendo io leggere o scrivere, avevo bisogno dell'aiuto di alcune mani volenterose, che hanno collaborato e collaborano oggi per rendere realtà questo progetto. Non pensavo che la prima stampa sarebbe andata così bene e non mi aspettavo la seconda. Mi sono dedicato all'abbattimento delle "barriere architettoniche mentali" della gente: se ci mettessimo nei panni di un disabile, come fanno i volontari dell'Unitalsi, qui al sud si starebbe meglio».
Quanto male fa sentirsi definire "diverso"? Ma in realtà non siamo tutti unici e diversi tra noi?
«Spesso si dice diverso perché si pensa ai "diversi" solo come persone sulla sedie a rotelle. E' necessario tracciare le stesse linee, non so che sensazione tu abbia provato ad entrare in un contesto come quello cattolico. Prima della convenzione [ottenuta di recente, ndr] quest'opera è nata con spirito di volontariato. Noi vogliamo portare il nome della casa-famiglia dappertutto, noi abbiamo avuto questa casa grazie a Don Angelo e alla Fondazione Suor Maria Lamacchia. Credo che se noi dovessimo valutare tutto ciò grazie all'aiuto dei volontari, capiremmo che tutta questa casa è un'opera di Dio».
Nel libro, scrivi che per te «dire ciao a un amico è sapere cosa vuol dire la parola domani». Cosa intendi con questa affermazione?
«L'amico è quello che non ti chiama "poverino", ma collabora con te tutti i giorni, ti considera una persona con la quale collaborare. Io ero agnostico nei confronti della Chiesa, ma credo che qualcuno che spinge questa gente a lavorare con noi c'è. Questa casa-famiglia è sorvegliata prima dallo spirito, e poi dalle istituzioni., E' questo che ha reso questa casa-famiglia un fiore all'occhiello. Dieci anni fa siamo partiti dal nulla, ora siamo una realtà».
Mi ha scosso molto il rapporto che racconti con la tua famiglia. Come sei arrivato a concepire il perdono verso tuo padre?
«Questa famiglia che è l'Unitalsi mi ha permesso di riappacificarmi con mio padre in maniera tanto serena, inimmaginabile fino ad alcuni anni fa. Io ho perdonato a mio padre il fatto che lui sia stato in carcere, quello che io dico è che devo essere grato a questa gente, a queste persone che lavorano con me quotidianamente, è l'amico che soffre se tu stai male. E' l'empatia che si è creata con queste persone che te li fa sentire quasi come dei fratelli. Questa è una vera famiglia, dove siamo 6 disabili, tutti accolti con calore. Io a Barletta sono riuscito a crearmi un contesto al di fuori anche grazie alla serenità che trovo qui».
Un'altra frase molto forte è "Vorrei avere tutto quello che gli altri vorrebbero scrollarsi di dosso". Un invito a tutti a rendersi conto che ciò che abbiamo è un dono e mai un peso?
«Adesso si cominciano ad apprezzare i doni della vita, anche se a volte mi capita di imprecare, io ho cercato di fare anche cose che non potevo con la consapevolezza di farmi male. Oggi credo che ci siano tante persone che non colgono quanto hanno o discrimina senza conoscere, purtroppo non hanno cervello o non lo sanno usare».
Cosa prova Angelo Nardelli guardando ai 40 anni di vita trascorsa?
«Adesso dopo tante peripezie fisiche provo rabbia nei confronti di chi giudica il disabile; sono povere persone perché non hanno capito niente della vita. Tu hai potuto leggere che i miei nonni lavoravano nel reparto ortofrutticolo, quindi ho sempre saputo come venivano sudati i soldi: però non sempre i soldi ti aiutano a realizzare i tuoi sogni, perché la realizzazione dei sogni parte dal cuore e dalla mente».
Quante volte hai avuto la sensazione di aver imbucato un tunnel senza uscita?
«Quando ho cominciato a bere e fumare pensavo di non uscirne; era quasi una forma di autolesionismo, però quando metti i piedi sulla terra capisci di potercela fare. Io nell'alcol mi auto commiseravo, oggi ho capito quanto fosse sbagliato quell'atteggiamento».
Oggi vivi nella casa-famiglia dell'Unitalsi in via Regina Margherita: ci racconti come si articola la tua giornata-tipo?
«C'è gente professionale che ci porta a fare dei laboratori a livello educativo: tra noi "ospiti" c'è chi si dedica alla scrittura e chi ha bisogno di essere educato ed essere portato ad una certa autonomia. In questa casa, in questo contesto, si lavora molto con lo spirito. Qui l'unica cosa alla quale non si pensa è il "dio" Denaro. Siamo liberi anche a livello di orari».
Quanto vi hanno aiutato le istituzioni?
«Le istituzioni hanno iniziato ad aiutarci solo adesso. Certo, dobbiamo sempre ringraziare il sindaco Maffei perché se non ci fossero stati lui e alcuni assessori non avremmo potuto ottenere la convenzione con la ASL che ci fa stare tranquilli dal punto di vista economico: spero che la realtà dell'Unitalsi con il tempo riesca a camminare da sola, ad autofinanziarsi, sebbene lo spirito resti quello del volontariato».
Quanto è vivibile Barletta per una persona diversamente abile?
«Purtroppo devo dire che la cultura del rispetto verso i diversamente abili è zero. Penso che tutti se ne possano rendere conto, non bisogna fermarsi davanti agli ipocriti. Riprendendo una frase del libro, una frase di un convegno al quale ho partecipato il cui slogan recitava "Mai più soli dopo di noi". Io vorrei dire ancora un grazie enorme a queste persone che non sono lo Stato, sono le mie gambe. Un grazie enorme va a Michele senza il quale sarebbe stato più difficile realizzare i miei progetti».
Vuoi concludere questa intervista con un saluto ai lettori di Barlettalife e un invito?
«Io invito solo chi non l'ha ancora fatto ad avvicinarsi all'Unitalsi, che può offrire la possibilità di cambiarti la vita. Noi abbiamo le ragazze del servizio civile tra cui c'è chi si occupa della casa-famiglia e la "Casa della speranza", dove si occupano di bambini con il gioca-scuola, il tutto a costo zero, come volontariato allo stato puro».
Quando e perché è nata in te l'idea, la voglia di dar vita a questo libro?
«E' nata proprio per far sentire la voce dei disabili soli. Io ero un disabile solo, e ora mi sono riappacificato con la mia famiglia grazie alla professionalità del presidente Cosimo Cilli e di quanti lavorano nella casa-famiglia. Quest'opera ora è una realtà, siamo prossimi alla terza ristampa. Per me questo libro è un bigliettino da visita, per far capire che i disabili sono aiutati sempre, non sono mai soli. Non potendo io leggere o scrivere, avevo bisogno dell'aiuto di alcune mani volenterose, che hanno collaborato e collaborano oggi per rendere realtà questo progetto. Non pensavo che la prima stampa sarebbe andata così bene e non mi aspettavo la seconda. Mi sono dedicato all'abbattimento delle "barriere architettoniche mentali" della gente: se ci mettessimo nei panni di un disabile, come fanno i volontari dell'Unitalsi, qui al sud si starebbe meglio».
Quanto male fa sentirsi definire "diverso"? Ma in realtà non siamo tutti unici e diversi tra noi?
«Spesso si dice diverso perché si pensa ai "diversi" solo come persone sulla sedie a rotelle. E' necessario tracciare le stesse linee, non so che sensazione tu abbia provato ad entrare in un contesto come quello cattolico. Prima della convenzione [ottenuta di recente, ndr] quest'opera è nata con spirito di volontariato. Noi vogliamo portare il nome della casa-famiglia dappertutto, noi abbiamo avuto questa casa grazie a Don Angelo e alla Fondazione Suor Maria Lamacchia. Credo che se noi dovessimo valutare tutto ciò grazie all'aiuto dei volontari, capiremmo che tutta questa casa è un'opera di Dio».
Nel libro, scrivi che per te «dire ciao a un amico è sapere cosa vuol dire la parola domani». Cosa intendi con questa affermazione?
«L'amico è quello che non ti chiama "poverino", ma collabora con te tutti i giorni, ti considera una persona con la quale collaborare. Io ero agnostico nei confronti della Chiesa, ma credo che qualcuno che spinge questa gente a lavorare con noi c'è. Questa casa-famiglia è sorvegliata prima dallo spirito, e poi dalle istituzioni., E' questo che ha reso questa casa-famiglia un fiore all'occhiello. Dieci anni fa siamo partiti dal nulla, ora siamo una realtà».
Mi ha scosso molto il rapporto che racconti con la tua famiglia. Come sei arrivato a concepire il perdono verso tuo padre?
«Questa famiglia che è l'Unitalsi mi ha permesso di riappacificarmi con mio padre in maniera tanto serena, inimmaginabile fino ad alcuni anni fa. Io ho perdonato a mio padre il fatto che lui sia stato in carcere, quello che io dico è che devo essere grato a questa gente, a queste persone che lavorano con me quotidianamente, è l'amico che soffre se tu stai male. E' l'empatia che si è creata con queste persone che te li fa sentire quasi come dei fratelli. Questa è una vera famiglia, dove siamo 6 disabili, tutti accolti con calore. Io a Barletta sono riuscito a crearmi un contesto al di fuori anche grazie alla serenità che trovo qui».
Un'altra frase molto forte è "Vorrei avere tutto quello che gli altri vorrebbero scrollarsi di dosso". Un invito a tutti a rendersi conto che ciò che abbiamo è un dono e mai un peso?
«Adesso si cominciano ad apprezzare i doni della vita, anche se a volte mi capita di imprecare, io ho cercato di fare anche cose che non potevo con la consapevolezza di farmi male. Oggi credo che ci siano tante persone che non colgono quanto hanno o discrimina senza conoscere, purtroppo non hanno cervello o non lo sanno usare».
Cosa prova Angelo Nardelli guardando ai 40 anni di vita trascorsa?
«Adesso dopo tante peripezie fisiche provo rabbia nei confronti di chi giudica il disabile; sono povere persone perché non hanno capito niente della vita. Tu hai potuto leggere che i miei nonni lavoravano nel reparto ortofrutticolo, quindi ho sempre saputo come venivano sudati i soldi: però non sempre i soldi ti aiutano a realizzare i tuoi sogni, perché la realizzazione dei sogni parte dal cuore e dalla mente».
Quante volte hai avuto la sensazione di aver imbucato un tunnel senza uscita?
«Quando ho cominciato a bere e fumare pensavo di non uscirne; era quasi una forma di autolesionismo, però quando metti i piedi sulla terra capisci di potercela fare. Io nell'alcol mi auto commiseravo, oggi ho capito quanto fosse sbagliato quell'atteggiamento».
Oggi vivi nella casa-famiglia dell'Unitalsi in via Regina Margherita: ci racconti come si articola la tua giornata-tipo?
«C'è gente professionale che ci porta a fare dei laboratori a livello educativo: tra noi "ospiti" c'è chi si dedica alla scrittura e chi ha bisogno di essere educato ed essere portato ad una certa autonomia. In questa casa, in questo contesto, si lavora molto con lo spirito. Qui l'unica cosa alla quale non si pensa è il "dio" Denaro. Siamo liberi anche a livello di orari».
Quanto vi hanno aiutato le istituzioni?
«Le istituzioni hanno iniziato ad aiutarci solo adesso. Certo, dobbiamo sempre ringraziare il sindaco Maffei perché se non ci fossero stati lui e alcuni assessori non avremmo potuto ottenere la convenzione con la ASL che ci fa stare tranquilli dal punto di vista economico: spero che la realtà dell'Unitalsi con il tempo riesca a camminare da sola, ad autofinanziarsi, sebbene lo spirito resti quello del volontariato».
Quanto è vivibile Barletta per una persona diversamente abile?
«Purtroppo devo dire che la cultura del rispetto verso i diversamente abili è zero. Penso che tutti se ne possano rendere conto, non bisogna fermarsi davanti agli ipocriti. Riprendendo una frase del libro, una frase di un convegno al quale ho partecipato il cui slogan recitava "Mai più soli dopo di noi". Io vorrei dire ancora un grazie enorme a queste persone che non sono lo Stato, sono le mie gambe. Un grazie enorme va a Michele senza il quale sarebbe stato più difficile realizzare i miei progetti».
Vuoi concludere questa intervista con un saluto ai lettori di Barlettalife e un invito?
«Io invito solo chi non l'ha ancora fatto ad avvicinarsi all'Unitalsi, che può offrire la possibilità di cambiarti la vita. Noi abbiamo le ragazze del servizio civile tra cui c'è chi si occupa della casa-famiglia e la "Casa della speranza", dove si occupano di bambini con il gioca-scuola, il tutto a costo zero, come volontariato allo stato puro».