Pop Corn
Suburra, un diluvio di stereotipi
Poca Urbe in Sollima
lunedì 2 novembre 2015
16.21
Piove a Piazza del Popolo, piove sul popolo, l'orinatoio della politica, l'inferriata dell'onorevole Malgradi, la cui prostata si prostra alle gocce del cielo per diventarne parte. Un segno di onnipotenza, che ha il sapore di ignavia, più che di arroganza. E' forse quello il fotogramma più rappresentativo di Suburra, un film sul potere-a detta del regista Stefano Sollima- e diventato un incubatore di stereotipi. Il politico corrotto (Pierfrancesco Favino), l'escort senza scorta (Giulia Elettra Gorietti), l'erede mafioso (Alessandro Borghi), il veterano della Banda della Magliana (Claudio Amendola), il mondano senza scrupoli (Elio Germano),lo zingaro arricchito (Adamo Dionisi) e la tossica vendicativa (Greta Scarano). Primo step verso la scrittura di una sceneggiatura superato: e poi? Poi succede che l'intreccio è stretto, le azioni monche, gli incastri forzati. Strano a dirsi, ma da De Cataldo, Petraglia e Rulli, maestri degli scripts made in Italy, ci si aspettava più realismo e meno fiction American style.
A compensare il buco autoriale, c'è la maestria scenica: facile rendere sublime Roma, fa tutto lei, ma le bassezze monumentali del Vaticano, di Castel Sant'Angelo, di Piazza del Popolo, di Montecitorio emergono dalla fogna che trabocca sul finale. Già alla fine? Bè, dopo sparatorie inverosimili tra Spa e Ipermercati, il cane che sbrana il padrone e il numero 8 fuori in 60 secondi, non è difficile arrivare all'approvazione della legge sulle periferie, che trasformerà Ostia nella Las Vegas coatta. Come coatti sono i dialoghi, senza profondità. La recitazione del duo Favino-Amendola risulta costipata, costretta nelle righe di un copione che fa dire poco e fa agire troppo. In via di definizione è Sebastiano, maschera di un Germano che sta ancora parlando con se stesso.
La veggenza di Suburra ricorda quella di Todo Modo, dove alla scomparsa di Aldo Moro si aggiunge l'apparizione demoniaca del bifolco Carminati-Buzzi. Con la differenza che l'apocalisse di Sollima (12 novembre 2011) salva i politici, mentre quella di Petri (9 maggio 1978) semina le fotografie di cadaveri eccellenti. La sfera di cristallo del cinema si frantuma nella messinscena di una serie di banalità che non lascia presagire nulla di nuovo. Tutto male fino a nuovo ordine. Tutti colpevoli fino a prova contraria. Il peccato è capitale, ma non originale.
Il potere non esclude nessuno, è un reticolo che ingoia tutti; rapporti di forza che denotano debolezza, che connotano superbia. All'uomo di potere si perdona l'impotenza e nulla si alza neanche nelle aspettative del pubblico. Suburra è la criminalità mentale sottovuoto, esposta nel banco frigo del miglior discount; non c'è aria, non c'è un ricambio con l'esterno, con la carne viva dei cittadini che subiscono i furti democratici. Lo snodo del raccordo romano sta tutto nell'inquadratura che ci fa vedere con gli occhi eroinomani la morte del padrone di Ostia. I topi fanno la festa senza il gatto e Sottol'urrà di Montecitorio, resiste il pollice verso di un popolo che esulta alle dimissioni di un cavaliere rimasto senza sella. Piccola traslazione semantica dal Papa al Cavaliere, l'apocalisse è ancora in corso; un'entropia augustea sotto il Cupolone.
A compensare il buco autoriale, c'è la maestria scenica: facile rendere sublime Roma, fa tutto lei, ma le bassezze monumentali del Vaticano, di Castel Sant'Angelo, di Piazza del Popolo, di Montecitorio emergono dalla fogna che trabocca sul finale. Già alla fine? Bè, dopo sparatorie inverosimili tra Spa e Ipermercati, il cane che sbrana il padrone e il numero 8 fuori in 60 secondi, non è difficile arrivare all'approvazione della legge sulle periferie, che trasformerà Ostia nella Las Vegas coatta. Come coatti sono i dialoghi, senza profondità. La recitazione del duo Favino-Amendola risulta costipata, costretta nelle righe di un copione che fa dire poco e fa agire troppo. In via di definizione è Sebastiano, maschera di un Germano che sta ancora parlando con se stesso.
La veggenza di Suburra ricorda quella di Todo Modo, dove alla scomparsa di Aldo Moro si aggiunge l'apparizione demoniaca del bifolco Carminati-Buzzi. Con la differenza che l'apocalisse di Sollima (12 novembre 2011) salva i politici, mentre quella di Petri (9 maggio 1978) semina le fotografie di cadaveri eccellenti. La sfera di cristallo del cinema si frantuma nella messinscena di una serie di banalità che non lascia presagire nulla di nuovo. Tutto male fino a nuovo ordine. Tutti colpevoli fino a prova contraria. Il peccato è capitale, ma non originale.
Il potere non esclude nessuno, è un reticolo che ingoia tutti; rapporti di forza che denotano debolezza, che connotano superbia. All'uomo di potere si perdona l'impotenza e nulla si alza neanche nelle aspettative del pubblico. Suburra è la criminalità mentale sottovuoto, esposta nel banco frigo del miglior discount; non c'è aria, non c'è un ricambio con l'esterno, con la carne viva dei cittadini che subiscono i furti democratici. Lo snodo del raccordo romano sta tutto nell'inquadratura che ci fa vedere con gli occhi eroinomani la morte del padrone di Ostia. I topi fanno la festa senza il gatto e Sottol'urrà di Montecitorio, resiste il pollice verso di un popolo che esulta alle dimissioni di un cavaliere rimasto senza sella. Piccola traslazione semantica dal Papa al Cavaliere, l'apocalisse è ancora in corso; un'entropia augustea sotto il Cupolone.