Pop Corn
La re-citazione della realtà in “La grande bellezza”
Sorrentino-Servillo: un Satyricon da cinema
giovedì 30 maggio 2013
20.29
Un'instancabile "mise en évidence", ombre e luci che vestono la scena, significativi flash di apparente nonsense, un debordamento di banali parole alternato a restrizioni di azioni; tutto questo è "La grande bellezza", ultimo capolavoro firmato Paolo Sorrentino, dopo lo statunitense "This must be the place" e l'italianissimo "Il Divo".
Il film racconta l'eccedenza (nel senso di spettacolarizzato eccesso) ma, sul piano della forma il racconto si fa descrizione; su quello contenutistico l'eccedenza è vuoto. Alta presunzione di Sorrentino quella di voler raffigurare i mali della Roma bene, l'impero all'inizio della sua cadenza. Presunzione corroborata dal protagonismo di un ineccepibile Toni Servillo, che fa e disfa nello sforzo continuo di emersione da ciò che egli stesso ritiene infimo. La pellicola segue l'andamento di un gomitolo che si srotola senza mai trovare discese che accelerino la decostruzione; a tenere insieme le parti è la costruzione visiva e logica della messa in scena. Una messa in scena sempre uguale a se stessa, che non si lascia sovvertire dai dialoghi, un campo visivo che fa dell'immagine la sua parola eloquente. La sceneggiatura è scarna, la scenografia eccedente, esattamente come i soggetti: alla sterminazione degli Io che vogliono essere parlati, sopravvive solo un Io parlante, uno scrittore viveur e dissoluto di nome Jep Gambardella, il cui unico obiettivo è snobbare la mondanità nel tentativo di smascherare la raffinatezza coatta.
Toni Servillo, nell'eleganza di cui è capace il volgare Gambardella, coincide con l'immagine dell'erba verde che cresce in corrispondenza di una squallida sepoltura. A far da involucro tombale ci sono la re-citazione di Carlo Verdone, nei marginali panni dell'amico di Jep, e quella di Sabrina Ferilli, spogliarellista troppo autenticamente verace per ben inserirsi nella falsità del divertissement romanesco. Il melting pot sorrentiniano vede coprotagonista la dimensione esoterico-ecclesiastica che, con fascino misterico e inquietante misticismo, rende suggestiva la messa in scena. La scrittura è prevedibile e sentenziosa perché non deve superare la banalità materica della realtà, re-citata nella sua chiusura esistenziale.
Sono le musiche e le semoventi inquadrature a rendere dinamica la staticità performativa (merito della regia fotografica di Luca Bigazzi). La spettacolarizzazione della volontà di distruggere, l'indifferenza sociale che gode dell'autolesionismo del singolo non fanno altro che rispondere a un ordine del discorso fisso e inconsunto. Ogni sequenza è infatti girata come se fosse una scena madre, un virtuosismo fine a se stesso. Senza alcun poter creativo è anche il linguaggio: occorrenze risapute, metafore insistite e argomentazioni di stampo didattico smontano la pretesa strutturale del regista.
Sarà forse nel nulla da creare a risiedere la grande bellezza? Il messaggio finale di Sorrentino è chiaro: "per fortuna ci rimane ancora qualcosa di bello da fare" con riferimento all'atto sessuale mancato. Rimanenza e sua attuazione futura si incontrano e chiudono l'antitetico presente; ci si abbandona nella sicurezza di poter godere domani della bellezza non scoperta ieri. Questo film fa amare le rose non colte, fa detestare il raccolto.
Il film racconta l'eccedenza (nel senso di spettacolarizzato eccesso) ma, sul piano della forma il racconto si fa descrizione; su quello contenutistico l'eccedenza è vuoto. Alta presunzione di Sorrentino quella di voler raffigurare i mali della Roma bene, l'impero all'inizio della sua cadenza. Presunzione corroborata dal protagonismo di un ineccepibile Toni Servillo, che fa e disfa nello sforzo continuo di emersione da ciò che egli stesso ritiene infimo. La pellicola segue l'andamento di un gomitolo che si srotola senza mai trovare discese che accelerino la decostruzione; a tenere insieme le parti è la costruzione visiva e logica della messa in scena. Una messa in scena sempre uguale a se stessa, che non si lascia sovvertire dai dialoghi, un campo visivo che fa dell'immagine la sua parola eloquente. La sceneggiatura è scarna, la scenografia eccedente, esattamente come i soggetti: alla sterminazione degli Io che vogliono essere parlati, sopravvive solo un Io parlante, uno scrittore viveur e dissoluto di nome Jep Gambardella, il cui unico obiettivo è snobbare la mondanità nel tentativo di smascherare la raffinatezza coatta.
Toni Servillo, nell'eleganza di cui è capace il volgare Gambardella, coincide con l'immagine dell'erba verde che cresce in corrispondenza di una squallida sepoltura. A far da involucro tombale ci sono la re-citazione di Carlo Verdone, nei marginali panni dell'amico di Jep, e quella di Sabrina Ferilli, spogliarellista troppo autenticamente verace per ben inserirsi nella falsità del divertissement romanesco. Il melting pot sorrentiniano vede coprotagonista la dimensione esoterico-ecclesiastica che, con fascino misterico e inquietante misticismo, rende suggestiva la messa in scena. La scrittura è prevedibile e sentenziosa perché non deve superare la banalità materica della realtà, re-citata nella sua chiusura esistenziale.
Sono le musiche e le semoventi inquadrature a rendere dinamica la staticità performativa (merito della regia fotografica di Luca Bigazzi). La spettacolarizzazione della volontà di distruggere, l'indifferenza sociale che gode dell'autolesionismo del singolo non fanno altro che rispondere a un ordine del discorso fisso e inconsunto. Ogni sequenza è infatti girata come se fosse una scena madre, un virtuosismo fine a se stesso. Senza alcun poter creativo è anche il linguaggio: occorrenze risapute, metafore insistite e argomentazioni di stampo didattico smontano la pretesa strutturale del regista.
Sarà forse nel nulla da creare a risiedere la grande bellezza? Il messaggio finale di Sorrentino è chiaro: "per fortuna ci rimane ancora qualcosa di bello da fare" con riferimento all'atto sessuale mancato. Rimanenza e sua attuazione futura si incontrano e chiudono l'antitetico presente; ci si abbandona nella sicurezza di poter godere domani della bellezza non scoperta ieri. Questo film fa amare le rose non colte, fa detestare il raccolto.