Pop Corn
La libertà ha marciato da Selma al mondo intero
Ava DuVernay firma un capolavoro chiaroscurale
domenica 1 marzo 2015
13.57
Sfiorato di poco il rischio di una messinscena idolatrata, "Selma-la strada per la libertà" si apre nel mezzo di una battaglia cominciata, ma ancora da combattere. 1964 è l'anno di questo medias res, l'anno in cui viene approvata la legge per i diritti civili e abolita la segregazione razziale delle leggi di Jim Crow; l'anno del Nobel per la Pace. Ma il Martin Luther King di DuVernay, un incalzante David Oyelowo, si prende cura della sua non apparenza: sta attento a non sembrare troppo incravattato, vive in una casa senza comfort con sua moglie Goretta e i suoi figli, sta nelle retrovie dei cortei non violenti, siede prima di tutti al tavolo dell'amica mangiando pane e marmellata. DuVernay non teme la muscolatura biografica: l'abilità registica di creare una linea sinuosa tra contorni e primo piano è profonda. Nulla di ciò che è caduto nell'oblio della Grande Storia è stato trascurato: dall'esplosione della cappella in cui trovarono la morte quattro bambine, al boicottaggio dei bus per la protesta non violenta di Rosa Parks, dalle asperità con Malcom X alla cooperazione col SNCC (Student Nonviolent Coordinating Committee).
Nessun nodo storico viene sacrificato dall'imponenza dei sermoni pubblici di King: un racconto ben circostanziato, su quella che è stata forse la vittoria più vitale per i negri, i "coloured", che sono diventati cittadini votanti ed eleggibili. Un King, che ha il potere intrinseco nel suo cognome, il re di un esercito non armato, il soldato di una nazione da cambiare, il commilitone debole tra i deboli, pronto ad essere la prima vittima di un martirio rivoluzionario. Un pastore che migra dalla Casa Bianca al gregge di Selma e lo guida verso Montgomery, verso la salvezza. A ogni battaglia che finisce, ne segue un'altra ancor più dura: dalla creazione dei neri alla tratta degli schiavi, dalle navi negriere alla Diaspora; dal Black Atlantic alla White House; dalla segregazione alla negazione del diritto di voto, con quel "DENIED" che suona come un colpo di rivoltella sulla domanda d'iscrizione alle liste elettorali. E' la disputa dialettica tra il servo e il padrone: un'incommensurabilità ordinata di coscienze infelici che fronteggia la sicurezza omicida del potere costituito. Al centro di questo fuoco incrociato il Presidente Lyndon B. Johnson (Tom Wilkinson), che ascolta le richieste del popolo di Martin Luther King, ma agisce da sordo alle manganellate delle truppe di George Wallace (Tim Roth) ai negri di Selma sull' Edmund Pettus Bridge, nei cieli blu dell'Alabama in quella Bloody Sunday del 7 marzo 1965. Ci ritornano, in un miracolo che rievoca la moltiplicazione dei pani e dei pesci, come uno stormo di rondini che per la vicinanza al sole si fa grigio, si alza e si abbassa, ampio ed esile, avanzante e reticente, perché non è più l'ora dei "coloured", ma degli uomini.
Il tempo scorre e la negoziazione tra politici e uomini Politici ristagna. Martin Luther King, Ralph Albernathy, John Doar, Andrew Young e John Lewis non si limitano a rifiutare la maschera bianca sulla loro pelle nera, ma cercano di pavimentare la via dell'incontro mattone per mattone, a partire dall'abolizione dei cavilli costituzionali che, di fatto, rendevano il voto la serratura impenetrabile della porta democratica. Non basta avere le chiavi: "A cosa serve avere un ristorante se i negri che ci entrano non hanno i soldi per ordinare un hamburger o l'istruzione per leggere il menù?" si domanda disperato King, nella sua cella, in un controcampo nero su nero. Ma il massacro razzista crea un osmosi tra coscienze libere e incoscienze in cattività. Le immagini televisive guardate da 70 milioni di persone sono i giudici che pongono fine al processo in cui la legge non è uguale per tutti. Il tribunale mediatico decide l'innocenza degli oppressi e la colpevolezza degli oppressori; L'effige del Presidente Johnson si macchia di ignavia, di meschinità...le elezioni sono vicine! Ed ecco autorizzata la terza marcia per Montgomery, terminata il 25 marzo del 1965 e che, a distanza di 50 anni sul grande schermo europeo, ricorda l'immagine-movimento di Giuseppe Pellizza da Volpedo. La firma del 6 agosto 1965, quella del Voting Rights Act, porta il nome dei corpi uccisi, umiliati e crocifissi nella facoltà di chi ha fede, ma nel dovere universale di dare fiducia all'umanità.
Nessun nodo storico viene sacrificato dall'imponenza dei sermoni pubblici di King: un racconto ben circostanziato, su quella che è stata forse la vittoria più vitale per i negri, i "coloured", che sono diventati cittadini votanti ed eleggibili. Un King, che ha il potere intrinseco nel suo cognome, il re di un esercito non armato, il soldato di una nazione da cambiare, il commilitone debole tra i deboli, pronto ad essere la prima vittima di un martirio rivoluzionario. Un pastore che migra dalla Casa Bianca al gregge di Selma e lo guida verso Montgomery, verso la salvezza. A ogni battaglia che finisce, ne segue un'altra ancor più dura: dalla creazione dei neri alla tratta degli schiavi, dalle navi negriere alla Diaspora; dal Black Atlantic alla White House; dalla segregazione alla negazione del diritto di voto, con quel "DENIED" che suona come un colpo di rivoltella sulla domanda d'iscrizione alle liste elettorali. E' la disputa dialettica tra il servo e il padrone: un'incommensurabilità ordinata di coscienze infelici che fronteggia la sicurezza omicida del potere costituito. Al centro di questo fuoco incrociato il Presidente Lyndon B. Johnson (Tom Wilkinson), che ascolta le richieste del popolo di Martin Luther King, ma agisce da sordo alle manganellate delle truppe di George Wallace (Tim Roth) ai negri di Selma sull' Edmund Pettus Bridge, nei cieli blu dell'Alabama in quella Bloody Sunday del 7 marzo 1965. Ci ritornano, in un miracolo che rievoca la moltiplicazione dei pani e dei pesci, come uno stormo di rondini che per la vicinanza al sole si fa grigio, si alza e si abbassa, ampio ed esile, avanzante e reticente, perché non è più l'ora dei "coloured", ma degli uomini.
Il tempo scorre e la negoziazione tra politici e uomini Politici ristagna. Martin Luther King, Ralph Albernathy, John Doar, Andrew Young e John Lewis non si limitano a rifiutare la maschera bianca sulla loro pelle nera, ma cercano di pavimentare la via dell'incontro mattone per mattone, a partire dall'abolizione dei cavilli costituzionali che, di fatto, rendevano il voto la serratura impenetrabile della porta democratica. Non basta avere le chiavi: "A cosa serve avere un ristorante se i negri che ci entrano non hanno i soldi per ordinare un hamburger o l'istruzione per leggere il menù?" si domanda disperato King, nella sua cella, in un controcampo nero su nero. Ma il massacro razzista crea un osmosi tra coscienze libere e incoscienze in cattività. Le immagini televisive guardate da 70 milioni di persone sono i giudici che pongono fine al processo in cui la legge non è uguale per tutti. Il tribunale mediatico decide l'innocenza degli oppressi e la colpevolezza degli oppressori; L'effige del Presidente Johnson si macchia di ignavia, di meschinità...le elezioni sono vicine! Ed ecco autorizzata la terza marcia per Montgomery, terminata il 25 marzo del 1965 e che, a distanza di 50 anni sul grande schermo europeo, ricorda l'immagine-movimento di Giuseppe Pellizza da Volpedo. La firma del 6 agosto 1965, quella del Voting Rights Act, porta il nome dei corpi uccisi, umiliati e crocifissi nella facoltà di chi ha fede, ma nel dovere universale di dare fiducia all'umanità.