Servizi sociali
"Sdisonorate", le donne uccise dalla mafia
Ammazzate per faide, per vendette trasversali, per paura che parlassero;. L'associazione DaSud ne ha contate 150
Italia - lunedì 19 marzo 2012
20.08
La prima assassinata è del 1896, le ultime di pochi mesi fa. Sono le donne ammazzate dalle mafie, donne da non dimenticare anche dopo l' otto marzo. L'associazione Dasud ne ha contate 150, ammazzate o indotte al sucidio per faide, per vendette trasversali, per paura che parlassero, o solo per errore. Storie di vita conosciute da Lea Garofalo a Rita Atria, da Silvia Ruotolo alla quattordicenne Annalisa Durante, drammi e tragedie dimenticate, consuetudini e meccanismi mafiosi sconosciuti, tutto raccolto nel rapporto "Sdisonorate", a cura di Irene Cortese, Sara Di Bella e Cinzia Paolillo.
È la prima volta si sceglie di raccogliere queste storie tutte insieme, sulla base di una ricerca, certamente parziale, che vuole rappresentare uno stimolo per una discussione pubblica e una mappa conoscitiva su un tema difficile e contraddittorio come quello del rapporto tra donne e mafia. Sempre più centrale, che troppo poco finora è stato indagato. Che in questi mesi comincia a trovare spazi, finalmente.
La ricerca è stata fatta a partire dall'elenco delle vittime stilato da Libera e dal libro "Dimenticati" di Danilo Chirico e Alessio Magro. Si è poi arricchita incrociando diverse fonti, archivi multimediali e archivi web dei giornali. L'approfondimento è stato realizzato consultando siti e libri, molte storie certamente saranno sfuggite: per tutti quindi l'invito a completare il lavoro iniziato con l'aiuto di chi queste storie le ha vissute per avvalorare con testimonianze vive il lavoro e far si che tante storie non restino solo affidate al passato, senza che il sacrificio di tante donne serva a smuovere qualcosa nella coscienza comune.
Troppe morti femminili, discordanti dai (presunti) codici d'onore seguiti dai clan secondo i quali non si uccidono le donne e i bambini. Solo un'assurda credenza legata alla speranza dell'esistenza di un'etica morale all'interno delle organizzazioni mafiose. Uomo, donna o bambino pur innocente spettatore va messo a tacere ad ogni costo con il mezzo più efficace, il fedele proiettile. La storia lo dimostra : le donne – innocenti o dissidenti o senza la forza di uscire dal giogo mafioso – uccise dalle mafie sono più di 150. Morte per l'impegno politico, per delitti d'onore. Oppure che sono state suicidate, sono state oggetto di vendette trasversali, sono morte per un accidente, sono rimaste incastrate dentro una situazione familiare e mafiosa da cui non sono riuscite a uscire. Storie molto diverse tra loro, accomunate dall'essere finite vittime del sistema criminale e socio-culturale delle mafie.
Pochi e significativi esempi, più o meno recenti tratti tra le tantissime storie. Graziella Campagna, 17enne della provincia di Messina, uccisa a colpi di lupara a scopo preventivo, perché nella tintoria dove lavorava era finita per sbaglio un'agenda con i recapiti del boss latitante Gerlando Alberti, rimasta nella tasca di una camicia sporca. Annalisa Isaia, ventenne ammazzata dalla zio a Catania nel 1998 perché frequentava i coetanei del clan rivale. Valentina Terracciano, morta nel 2000 a due anni, a Pollena Trocchia in provincia di Napoli, perché si è trovata per caso lungo la traiettoria del proiettile di un killer. Il dossier di da Sud risale nel tempo alla storia di una delle prime "sdisonorate", la diciasettenne Emanuela Sansone, figlia di una locandiera palermitana sospettata di aver denunciato alla polizia una banda di falsari. La ammazzarono il 27 dicembre 1896. Donne vittime, ma in molti casi immerse nella cultura mafiosa quanto i boss e i picciotti ai quali per tradizione è demandata la gestione militare degli affari criminali. Null'altro da aggiungere.
Più recente, del 26 maggio dello scorso anno, vennero massacrate in un'auto tre donne della famiglia Cava, da anni protagonista di una sanguinosa faida con i Graziano a Lauro, in provincia di Avellino. Qualche giorno prima madri, mogli e figlie delle due famiglie si erano affrontate in piazza a colpi di insulti e schiaffi, le Graziano avevano avuto la peggio. Da qui la strage.
Non soltanto un elenco di storie posto in ordine cronologico per analizzare l'evoluzione del fenomeno dal primo all'ultimo caso. Nelle pagine del dossier il rapporto tra donne e mafia è analizzato tra gli altri da Rita Borsellino, Angela Napoli, politiche impegnate sul fronte antimafia, e dalla giornalista Francesca Barra, Celeste Costantino, Ombretta Ingrascì, scrittrice e studiosa della presenza delle donne nei clan, e arricchito da numerose testimonianze dirette. Tra queste un testo di Viviana Matrangola, figlia di Renata Fonte, assessore comunale della cittadina pugliese di Nardò che aveva denunciato oscure speculazioni edilizie. E' stata uccisa all'uscita del consiglio comunale il 31 marzo 1984. Aveva appena compiuto 33 anni.
Contributi, tratti da articoli di giornali si susseguono nel dossier: storie di donne che hanno avuto e continuano ad avere un ruolo importante dentro le mafie o nell'antimafia. Da segnare un saggio su "Madri e figlie" a cura di Anna Puglisi e Umberto Santino del centro di documentazione Peppino Impastato, tra i primissimi a lavorare su Donne e mafia. L'appendice è invece un elenco dei centri antiviolenza in Italia. Un fondamentale strumento di consultazione. Si perchè, come emerge dalle stesse storie, se le vittime avessero potuto parlare con un centro, forse si sarebbero potute salvare.
È la prima volta si sceglie di raccogliere queste storie tutte insieme, sulla base di una ricerca, certamente parziale, che vuole rappresentare uno stimolo per una discussione pubblica e una mappa conoscitiva su un tema difficile e contraddittorio come quello del rapporto tra donne e mafia. Sempre più centrale, che troppo poco finora è stato indagato. Che in questi mesi comincia a trovare spazi, finalmente.
La ricerca è stata fatta a partire dall'elenco delle vittime stilato da Libera e dal libro "Dimenticati" di Danilo Chirico e Alessio Magro. Si è poi arricchita incrociando diverse fonti, archivi multimediali e archivi web dei giornali. L'approfondimento è stato realizzato consultando siti e libri, molte storie certamente saranno sfuggite: per tutti quindi l'invito a completare il lavoro iniziato con l'aiuto di chi queste storie le ha vissute per avvalorare con testimonianze vive il lavoro e far si che tante storie non restino solo affidate al passato, senza che il sacrificio di tante donne serva a smuovere qualcosa nella coscienza comune.
Troppe morti femminili, discordanti dai (presunti) codici d'onore seguiti dai clan secondo i quali non si uccidono le donne e i bambini. Solo un'assurda credenza legata alla speranza dell'esistenza di un'etica morale all'interno delle organizzazioni mafiose. Uomo, donna o bambino pur innocente spettatore va messo a tacere ad ogni costo con il mezzo più efficace, il fedele proiettile. La storia lo dimostra : le donne – innocenti o dissidenti o senza la forza di uscire dal giogo mafioso – uccise dalle mafie sono più di 150. Morte per l'impegno politico, per delitti d'onore. Oppure che sono state suicidate, sono state oggetto di vendette trasversali, sono morte per un accidente, sono rimaste incastrate dentro una situazione familiare e mafiosa da cui non sono riuscite a uscire. Storie molto diverse tra loro, accomunate dall'essere finite vittime del sistema criminale e socio-culturale delle mafie.
Pochi e significativi esempi, più o meno recenti tratti tra le tantissime storie. Graziella Campagna, 17enne della provincia di Messina, uccisa a colpi di lupara a scopo preventivo, perché nella tintoria dove lavorava era finita per sbaglio un'agenda con i recapiti del boss latitante Gerlando Alberti, rimasta nella tasca di una camicia sporca. Annalisa Isaia, ventenne ammazzata dalla zio a Catania nel 1998 perché frequentava i coetanei del clan rivale. Valentina Terracciano, morta nel 2000 a due anni, a Pollena Trocchia in provincia di Napoli, perché si è trovata per caso lungo la traiettoria del proiettile di un killer. Il dossier di da Sud risale nel tempo alla storia di una delle prime "sdisonorate", la diciasettenne Emanuela Sansone, figlia di una locandiera palermitana sospettata di aver denunciato alla polizia una banda di falsari. La ammazzarono il 27 dicembre 1896. Donne vittime, ma in molti casi immerse nella cultura mafiosa quanto i boss e i picciotti ai quali per tradizione è demandata la gestione militare degli affari criminali. Null'altro da aggiungere.
Più recente, del 26 maggio dello scorso anno, vennero massacrate in un'auto tre donne della famiglia Cava, da anni protagonista di una sanguinosa faida con i Graziano a Lauro, in provincia di Avellino. Qualche giorno prima madri, mogli e figlie delle due famiglie si erano affrontate in piazza a colpi di insulti e schiaffi, le Graziano avevano avuto la peggio. Da qui la strage.
Non soltanto un elenco di storie posto in ordine cronologico per analizzare l'evoluzione del fenomeno dal primo all'ultimo caso. Nelle pagine del dossier il rapporto tra donne e mafia è analizzato tra gli altri da Rita Borsellino, Angela Napoli, politiche impegnate sul fronte antimafia, e dalla giornalista Francesca Barra, Celeste Costantino, Ombretta Ingrascì, scrittrice e studiosa della presenza delle donne nei clan, e arricchito da numerose testimonianze dirette. Tra queste un testo di Viviana Matrangola, figlia di Renata Fonte, assessore comunale della cittadina pugliese di Nardò che aveva denunciato oscure speculazioni edilizie. E' stata uccisa all'uscita del consiglio comunale il 31 marzo 1984. Aveva appena compiuto 33 anni.
Contributi, tratti da articoli di giornali si susseguono nel dossier: storie di donne che hanno avuto e continuano ad avere un ruolo importante dentro le mafie o nell'antimafia. Da segnare un saggio su "Madri e figlie" a cura di Anna Puglisi e Umberto Santino del centro di documentazione Peppino Impastato, tra i primissimi a lavorare su Donne e mafia. L'appendice è invece un elenco dei centri antiviolenza in Italia. Un fondamentale strumento di consultazione. Si perchè, come emerge dalle stesse storie, se le vittime avessero potuto parlare con un centro, forse si sarebbero potute salvare.