Il barlettano Massimo Greco
Il barlettano Massimo Greco
La città

Il barlettano alla guida del bus per l'Ucraina: «Mi porto dietro i volti dei bambini»

Massimo Greco racconta il viaggio iniziato martedì e concluso ieri

Un viaggio umano, oltre che umanitario. È tornato a casa ieri sera Massimo Greco, il 33enne barlettano alla guida dell'autobus che da Molfetta ha raggiunto il confine ungherese con l'Ucraina per portare in salvo dalla guerra 45 persone. Massimo si è dato il cambio con i colleghi Ruggiero Casardi e Antonio Mastroianni durante le ore del viaggio organizzato dal Sermolfetta e da don Gino Samarelli per portare in Ucraina beni di prima necessità e accompagnare in Italia i profughi di un conflitto che dura ormai da due settimane.
«Mi porterò dietro i volti dei bambini e delle loro madri», racconta Massimo. «Uno di loro aveva meno di un anno - spiega -. Un bambino di circa 8 anni ha giocato durante il viaggio: credo non avessero capito cosa stava succedendo ed è meglio così. Vederli mi ha fatto commuovere, ma ho evitato di piangere». Ad accompagnare i bambini c'erano le loro madri, la maggior parte delle quali ha dovuto salutare mariti e compagni senza sapere se e quando poterli rivederli: «Alcuni mariti sono partiti con loro, ma solo perché sono italiani sposati con donne ucraine». Gli uomini tra i 18 e i 60 anni, invece, non possono lasciare il Paese perché potrebbero essere chiamati alla armi per resistere all'avanzata russa.
6 fotoIl viaggio umanitario dall'Ucraina
I colleghi alla guidaIl pullman in viaggio da Molfetta allUcrainaI cagnolini a bordoIl pullmanIl viaggioIl viaggio
Arrivati al confine, i volontari si sono fermati per un paio d'ore. «Dall'altra parte della frontiera c'erano le persone ad aspettarci - racconta Massimo -. È stato don Gino ad accoglierle, mentre io aspettavo con la dottoressa all'autobus. Man mano che arrivavano le persone sistemavo i bagagli, le facevo salire a bordo e distribuivo le mascherine». Erano tutti in buona salute, ma infreddoliti: «La prima cosa che abbiamo fatto è stata fornire loro cibo e acqua».

Nei bagagli hanno messo l'indispensabile, quel poco che serve a sopravvivere e quanto basta a non rallentare la fuga dalle bombe. «Alcuni di loro ci hanno raccontato che erano in viaggio da sei giorni. Qualcuno ha trascorso 12 ore in treno, molte delle quali in piedi perché i treni erano affollati dalla gente che scappava». Per loro, essere arrivati in Italia significa essere al sicuro. Lo hanno capito guardando il mare dal finestrino del bus, mentre fino a una manciata di ore prima erano costretti a nascondersi nei rifugi sotterranei non appena sentivano le sirene che avvertivano degli attacchi aerei.

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