Kader Diabate
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"La pelle in cui abito": un inno alla cultura e all'uguaglianza

Kader Diabate racconta la sua prigionia e la fuga in mare dalla Libia

La storia di Kader Diabate suscita quel vuoto allo stomaco che lo stesso ha attribuito alla fame, quella vera e quella di conoscenza. Kader, il ragazzo nato a Man, in Costa d'Avorio, il fuggitivo, il prigioniero, il benvenuto in Italia, ha raccontato il suo lungo viaggio sabato pomeriggio, presso la sede dell'ANPI di Barletta. Arrivato in Italia, ha voluto tracciare i contorni di volti, odori e suoni della sua Africa, della sua famiglia e delle torture che ha subito. Da qui il libro: "La pelle in cui abito", nato come partorito dalla penna del giornalista e docente Giancarlo Visitilli.

Kader è un "presentatore" atipico, perché senza riserve regala ai presenti alcune delle riflessioni àncora del suo libro. Spesso, senza pensarci troppo, identifica i suoi aguzzini libanesi con appellativi coloriti. Fin troppo educato. Si passa la mano sul volto e sorride, mentre il pubblico ha gli occhi spalancati per le esperienze di vita che un ragazzino di quell'età ha vissuto sulla sua pelle. Una pelle diversa da quella bianca per una scelta inconsapevole della natura, cromìa che troppo spesso spaventa. Per quale ragione, poi? «In nessun dialetto africano troverete la traduzione esatta della parola straniero, perché una cosa può essere strana, non una persona - afferma». Kader gioca che con le parole, con i suoni di una lingua che ha dovuto imparare per accorciare la distanza che separa l'Africa dall'Italia: il mare. Così confessa che la prima parola che ha imparato conteneva la radice "bene": "benvenuto", pronunciata con dolcezza da Elisabetta Notta dei Medici senza frontiere, tra i volontari che lo hanno tratto in salvo da quello stesso mare che oggi guarda a volte con inquietudine.

Kader è amato da tutta la sua famiglia. È stato suo padre a insegnargli che per poter scoprire nuove verità, per lottare è importante studiare: "perché la cultura illumina il buio" e anche se bambino, Kader ha visto dentro il buio molte volte. La prima volta aveva tredici anni; gli fu detto che la sua compagna di classe Assetou sarebbe andata in sposa a un uomo molto più grande di lei. Una vecchia tradizione che insieme all'infibulazione spezza le vite delle bambine africane. Da qui parte la crociata e il successivo allontanamento dalla sua casa a forma di U che sempre accoglie. Nel suo paese è tempo di guerra e dalla Costa d'Avorio parte per la Libia. Vive l'esperienza del viaggio nel deserto, in un pick-up che avrebbe potuto contenere massimo dieci persone, loro erano in trenta con quattro litri d'acqua a testa, 55 gradi e il puzzo di sudore. Poi, quando crede di essere arrivato alla meta, Kader e un suo compagno vengono rapiti e imprigionati.

È il caso di non proseguire il racconto della storia, perché, invece, è il caso di consigliare la sua lettura negli istituti scolastici. Un invito che i relatori presenti: il prof. ordinario di Sociologia del diritto Luigi Pannarale, il prof. emerito di Diritto internazionale Ugo Villani e Francesca Romana Rizzi, Presidente dell'ANPI di Barletta rivolgono alle docenti presenti. È il caso di consigliare la sua lettura ai bambini quanto agli adulti perché quante volte si lamentano durante una sola giornata.

Kader adesso vive nella vicina Corato, è stato accolto da mamma Daniela ma tornerà dal suo popolo. Porterà il suo bagaglio in Africa, non per impiantare la nostra cultura, ma per portare l'esempio di una cultura altra, perché per sapere occorre accendere la luce. "Diventare ingordi di cultura è ciò che servirebbe al mio popolo per smettere di essere affamato, non solo di cibo". Nel frattempo, qui in Italia, Kader lotta per i diritti umanitari, racconta il suo viaggio e ricorda che il sangue nelle vene dell'uomo bianco è rosso come quello dell'uomo nero. Il colore della pelle e il continente in sui viviamo è solo dettato dal caso. Puro caso.
4 fotoPresentazione del libro "La pelle in cui abito"
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