In ricordo di Cafiero, padre dell'anarchismo europeo
Stasera sarà depositata una corona d'alloro presso la sua casa natale
Pochi mesi dopo, sempre in quel 1846, nel palazzo di Ferdinando Cafiero, all'attuale civico 111, a pochi metri dalla prepositura di San Giacomo, Luigia Azzariti dà alla luce Carlo, in una famiglia (già popolata di due fratelli e due sorelle) dell'agiata borghesia terriera di Barletta e circondario, famiglia notabile anche per la pubblica reputazione dei suoi esponenti destinati alla carriera parlamentare e civile dopo l'Unità d'Italia. Era martedì 1° di settembre.
Vite iniziate dunque parallele per i piccoli Peppino e Carluccio, figli dell'alta borghesia e di un ceto diventato proprio in quegli anni di riferimento per Barletta. Ma con esiti ben differenti. Giuseppe De Nittis diverrà l'affermato pittore che conosciamo: morì giovanissimo a Parigi a soli 38 anni nel 1884. Carlo Cafiero sarà noto come l'ideologo ed il finanziatore di un socialismo utopista a valenza europea con Bakunin, Marx ed Engels: "pecora nera" della famiglia, addirittura cancellato come parente assai scomodo nella memoria dei congiunti più stretti per i burrascosi trascorsi di polizia, morì di malattia mentale nel manicomio criminale di Nocera Inferiore a 46 anni nel 1892. "Io sono il figlio del sole" ripeteva a chi lo vedeva aggirarsi seminudo nel cortile: non chiaro segno di demenza ma chiarissimo messaggio politico, fra anarchia e socialismo utopistico…
Crebbero così legati insieme, nell'infanzia, nell'adolescenza ed in gioventù fino alle porte dell'età più matura, da un'amicizia che si sarebbe consolidata negli anni successivi con gioia e reciproco rispetto. Identici i percorsi dell'educazione e della formazione al mondo, identico il carattere focoso e ribelle, identiche le mete dei "viaggi sentimentali" da Napoli a Firenze, a Parigi, a Londra.
Nel Taccuino autobiografico di De Nittis, l'artista parla spesso dell'amico Cafiero, delle sue visite nella casa parigina, del suo bell'aspetto di uomo meridionale che affascinava le donne francesi di quel tempo. L'amicizia era scambievole ed accettata con felicità e "joie de vivre" da entrambi, aiutati dalla loro stagione di benessere e di agiatezza: che a Giuseppe proveniva dall'essere ormai pienamente accreditato al "box office" della celebrità gaudente come pittore della mondanità e della bella gente, e che a Carlo derivava dalle rendite di quelle terre al sole dove l'esistenza dei contadini era spesso pura e semplice sopravvivenza alla fame ed agli stenti del duro lavoro alle soglie della rivoluzione industriale ma che nel Mezzogiorno d'Italia sarebbe arrivata molto dopo.
Destini diversi ma per sempre ad incrociarsi nel cammino delle rispettive vite. Testimoni di quell'Ottocento che diventa spartiacque dopo la spedizione dei mille garibaldini e l'annessione al Regno d'Italia delle Due Sicilie: dove il nome di Barletta viene citato anche nel codazzo delle rispettive biografie dove si respira spesso e volentieri aria da romanzo, oltre che delle monumentali bibliografie, specie quella denittisiana.
Sulla nostra carta dell'identità culturale? Oggi come oggi, a 170 anni dalla nascita, due lapidi sulla facciata delle case dove nacquero. Restano più evidenti i segni del gran pittore, grazie alla collezione donata alla città dalla vedova Léontine, visibile a Palazzo della Marra. Un po' meno quelli dell'ideologo socialista, forse perché la politica (anche e soprattutto quella di casa nostra) versa in una crisi ancora più profonda come idee, e dove ai "rimpasti" bisognerebbe invece sostituire il gusto forte della rinascita. Già, proprio così: rinascita, parola cara ad una certa sinistra del buon tempo che fu. E chi vuol intendere, intenda…».