Francesco Lotoro The Lost Music of the Holocaust
Francesco Lotoro The Lost Music of the Holocaust
Attualità

Francesco Lotoro e la ricerca sulla musica concentrazionaria: «Una missione difficile»

Il suo libro "The Lost Music of Holocaust" è stato tradotto in lingua inglese

È inarrestabile l'impegno che il pianista e compositore barlettano, Francesco Lotoro, dedica al filone della musica concentrazionaria. Lo stesso che l'ha portato a scrivere un libro che è stato tradotto in inglese, con il titolo "The Lost Music of Holocaust". L'opera è pronta per essere divulgata oltre i confini nazionali.

Abbiamo rivolto alcune domande a Lotoro, che ci ha parlato del suo libro, del metodo con cui si approccia a questi studi e dell'importanza della musica.

Nel libro "The Lost Music of Holocaust" si intrecciano storie, sentimenti, contraddizioni. Cosa rappresentava la musica per chi era costretto alla vita nei lager?
«Non c'è ovviamente una regola fissa. Dipende anche, e soprattutto, da cosa la musica significava per chi la componeva prima dell'esperienza del lager, che può dare solo dei valori aggiunti. Il musicista del lager, comunque, non è il poeta del lager, ma è piuttosto da considerare un esorcista, un distruttore di quel dolore. Nelle partiture la tragedia è tangibile, il musicista naturalmente non resta insensibile o indifferente alla cattiveria. È da sottolineare il modo in cui questi artisti conducevano la propria vita musicale: mentre il loro corpo era costretto a torture inammissibili, il loro cervello, il loro cuore e la loro anima non erano prigionieri. Questo ha fatto sì che tra il 1933 e il 1953 ci fosse un tessuto di forte libertà, di genio, di creazione».

C'è una storia che ha approfondito durante le sue ricerche che le è rimasta particolarmente impressa?
«È difficile individuare una sola storia. Per quanto la passione sia il motore del mio lavoro, nel tempo le mie ricerche hanno assunto una connotazione sempre più scientifica. Questo tipo di approccio, con cui bisogna mettere in ordine migliaia di biografie e di partiture, ti porta a mettere un po' da parte le emozioni. Sei come un cuoco: non ti deve per forza piacere ciò che cucini, è necessario utilizzare della carta velina. Quello che resta è sicuramente il dramma, oltre all'enorme difficoltà nel ricostruire una musica, una storia, una geografia che oggi non ci sono più. Molti dei luoghi che vado a studiare oggi sono in mano a Stati diversi. Potrei però fare l'esempio di Rudolf Karel, prigioniero politico che fu deportato a Praga. Al compositore non era permesso scrivere, si ammalò anche di dissenteria. Ecco, lui si dedicava alla scrittura 2 ore al giorno, che coincidevano con il tempo che trascorreva in infermeria per curarsi. Essendo un luogo che pullulava di malati, nell'infermeria non c'era mai la presenza della GESTAPO. Studiando, riesco a sentire tutta la maestria e la concentrazione di Karel per tirar fuori, in quelle ore, tutta l'ispirazione possibile. Dopo 2 ore era costretto a mettere in pausa il cervello e a poter riprendere la sua partitura soltanto il giorno successivo, per lo stesso lasso di tempo. Le prove di ciò che scriveva su brandelli arrotolati venivano nascosti nella biancheria sporca. La sua attività fu scoperta e Karel fu trasferito per poi essere ucciso il 6 marzo 1943. Tutta la sua produzione, oggi, è conservata a Barletta grazie all'impegno dell'ILMC (Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria)».

In che modo la produzione musicale dei lager può aiutarci a comprendere il passato ma anche il presente?
«Trattandosi pur sempre di produzione musicale del '900 dovrebbe rientrare nella letteratura musicale del '900 per imporsi al gusto internazionale, ma siamo ben lontani da questo obiettivo. Soltanto l'1% o forse il 2% di questa musica è inserita in questo contesto, il resto rimane fuori dai sistemi e dai concerti. È una missione difficile. A volte ci si ricorda di questa musica in occasione della Giornata della memoria e di pochi altri anniversari, dimenticandosi che si tratta di musica e, in quanto tale, non risponde a criteri commemorativi. I compositori di allora non facevano musica pensando alla componente tragica, ma, come tutti, desideravano portarla nelle chiese, nei teatri, per strada».
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