La città
Antonio Donvito, la seconda guerra mondiale e i campi di lavoro tedeschi
La parola al 91enne barlettano recentemente insignito di una medaglia d'onore
Barletta - giovedì 12 giugno 2014
Due anni di prigionia, due anni di lavoro, sofferenza ed espedienti. Antonio Donvito, barlettano, classe 1923 è stato internato per ben due anni dal 1943 al 1945 in campi di lavoro tedeschi, dai quali è però riuscito a venir fuori portando con se un bagaglio di esperienza e di aneddoti da poter raccontare ai giovani tanto da fornirgli degli elementi importanti per poter riflettere su quello che è stato il periodo della seconda guerra mondiale, un periodo di orrore vissuto dal signor Donvito, quanto basta per comprenderne a pieno la durezza. Oggi, dopo ben 69 anni dalla fine del più sanguinoso conflitto della storia, Antonio Donvito si è visto riconoscere una medaglia d'onore (gli è stata consegnata lo scorso 2 giugno presso la prefettura di Barletta), un simbolo importante per un uomo semplice, che abbiamo voluto intervistare per trarre da lui i maggiori insegnamenti possibili.
Signor Donvito, cosa significa per lei questo premio?
«Per me è una grande soddisfazione, ricevere questo premio ed essere gratificato per quella che è stata la mia esperienza. Io rientro nella categoria degli IMI (Italiano militare internato) ovvero, un prigioniero di guerra non riconosciuto come tale. Questo a seguito di un accordo tra Mussolini e Hitler per condurre questo tipo di prigionieri al lavoro coatto. Se fossimo stati prigionieri di guerra non avremmo potuto lavorare, così invece sì. Qualcuno di noi fu portato nelle miniere altri, come me, in campi di lavoro della Germania».
Ci racconta un po' dove si trovava quando fu tratto in prigionia e in che modo foste arrestati?
«La mia partecipazione alla guerra cominciò nei bersaglieri di stanza a Roma, poi fui mandato a Velletri per il C.A.R. con la possibilità di essere mandato in Russia, possibilità che non si concretizzò. Poco tempo dopo, e siamo nel 1943, fui però mandato in Grecia dove facevamo presidio notturno ai campi controllati dagli italiani, senza però mai partecipare a combattimenti. Qualche giorno dopo l'8 settembre ci si presentarono dinanzi il nostro colonnello e quello tedesco, intimandoci di mollare i fucili e comunicandoci che saremmo tornati in Italia. Inizialmente, la nostra reazione fu ovviamente di gioia. Un paio di giorni dopo ci caricarono su dei vagoni bestiame cominciando il nostro viaggio, ma ben presto ci accorgemmo che la reale destinazione non era l'Italia ma la Germania! E difatti nonostante la nostra incredulità, una notte alle 4 giungemmo in Germania, aprirono i vagoni e due militari tedeschi ci comandarono di scendere dichiarandoci prigionieri».
Una volta condotti nei campi di lavoro, come trascorrevate la giornata?
«Va detto, che venivamo smistati in vari campi di lavoro in base a quella che era l'occorrenza dei tedeschi. Per quel che riguarda la giornata, la mattina presto venivamo condotti nei campi di lavoro dopo aver trascorso la notte in baracche di legno costruite da noi stessi appena arrivati. La sveglia era all'alba ed il nostro lavoro consisteva nello scavare canali, per installare tubi nei pressi di un aeroporto, era una sorta di lavoro di manutenzione. Nel campo eravamo in compagnia di russi e uomini di altre nazionalità soprattutto dell'est, mentre gli ebrei erano prigionieri in un campo vicino al nostro e talvolta ci raggiungevano tanto che una volta mi ritrovai a dirigere una squadra composta proprio da ebrei ed avevamo il compito di spianare il terreno per l'installazione di alcuni binari. Per il pranzo, se così vogliamo chiamarlo, che consisteva in 1 kg di pane nero (definito "u scagghiuzz") da suddividere in 7 persone e due patate ancora sporche di terra, si era in compagnia dei prigionieri di altre nazionalità. Proprio per quel che riguarda il cibo ho da raccontare qualche aneddoto».
Ci dica signor Donvito, di cosa si tratta?
«Devo dire che i tedeschi ci prendevano in giro dicendoci: "Buoni gli spaghetti eh", era una situazione particolare. Un giorno però un ingegnere tedesco, per migliorare la nostra produttività decise di salvaguardarci dandoci la possibilità e tramite un cuoco milanese che era tra noi, ci permise di utilizzare gli avanzi della mensa delle reclute tedesche e nutrirci maggiormente. In effetti questo ci permise di lavorare meglio. Altro aneddoto riguarda le patate che come vi ho detto inizialmente mangiavamo crude o al massimo riscaldate sulle stufe. Un giorno, un ebreo mi indicò un sistema per cuocerle: prendere una forchetta ed un cucchiaio, bucarli alle estremità far passare tra le due un filo elettrico per poi immergerle in un secchio metallico pieno di acqua, successivamente inserire in una presa il filo elettrico ed ecco che l'acqua bolliva. Un espediente molto intelligente che ci permise di vivere meglio per un periodo e per fortuna non fu mai scoperto dai tedeschi che sicuramente non lo avrebbero tollerato».
Come è arrivato il momento della liberazione?
«Nei giorni prima dell'approdo degli alleati, riuscimmo ad allontanarci dal campo e rifugiammo in alcune gallerie anti bombardamento nei dintorni. Siamo stati lì per due giorni quando ad un certo punto, all'alba del terzo giorno ci rendemmo contro che i soldati tedeschi non erano più lì a presidiare, eravamo liberi. Era l'8 aprile del 1945 ed a liberarci furono i francesi».
E il ritorno in Italia come è avvenuto?
«Per il ritorno, fu fondamentale la figura di un medico italiano che era di stanza in una città vicina al secondo campo dove ho lavorato (i nomi dei campi non sono risultati rintracciabili e la memoria del signor Donvito in questo caso non ci è stata di aiuto ndr), fu lui a darci le indicazioni necessarie. Il nostro viaggio iniziò con dei carretti, facevamo delle tappe intermedie paese per paese con delle soste necessarie a rifornirci e poi ripartivamo. Dopo parecchi giorni di viaggio, arrivammo in un grande campo di smistamento, sempre in Germania, dove stanziammo per due settimane prima di prendere il treno che ci condusse in Italia dopo ben due anni dall'arrivo in Germania. Era l' 11 settembre del 1945 ed il viaggio di ritorno era durato ben 5 mesi. L'accoglienza della mia famiglia fu commovente, all'arrivo del treno la mia famiglia che abitava nei pressi della stazione, in via Milano, si catapultò a prendermi e ritornando a casa manifestò la gioia per tutto il quartiere».
Signor Donvito, cosa significa per lei questo premio?
«Per me è una grande soddisfazione, ricevere questo premio ed essere gratificato per quella che è stata la mia esperienza. Io rientro nella categoria degli IMI (Italiano militare internato) ovvero, un prigioniero di guerra non riconosciuto come tale. Questo a seguito di un accordo tra Mussolini e Hitler per condurre questo tipo di prigionieri al lavoro coatto. Se fossimo stati prigionieri di guerra non avremmo potuto lavorare, così invece sì. Qualcuno di noi fu portato nelle miniere altri, come me, in campi di lavoro della Germania».
Ci racconta un po' dove si trovava quando fu tratto in prigionia e in che modo foste arrestati?
«La mia partecipazione alla guerra cominciò nei bersaglieri di stanza a Roma, poi fui mandato a Velletri per il C.A.R. con la possibilità di essere mandato in Russia, possibilità che non si concretizzò. Poco tempo dopo, e siamo nel 1943, fui però mandato in Grecia dove facevamo presidio notturno ai campi controllati dagli italiani, senza però mai partecipare a combattimenti. Qualche giorno dopo l'8 settembre ci si presentarono dinanzi il nostro colonnello e quello tedesco, intimandoci di mollare i fucili e comunicandoci che saremmo tornati in Italia. Inizialmente, la nostra reazione fu ovviamente di gioia. Un paio di giorni dopo ci caricarono su dei vagoni bestiame cominciando il nostro viaggio, ma ben presto ci accorgemmo che la reale destinazione non era l'Italia ma la Germania! E difatti nonostante la nostra incredulità, una notte alle 4 giungemmo in Germania, aprirono i vagoni e due militari tedeschi ci comandarono di scendere dichiarandoci prigionieri».
Una volta condotti nei campi di lavoro, come trascorrevate la giornata?
«Va detto, che venivamo smistati in vari campi di lavoro in base a quella che era l'occorrenza dei tedeschi. Per quel che riguarda la giornata, la mattina presto venivamo condotti nei campi di lavoro dopo aver trascorso la notte in baracche di legno costruite da noi stessi appena arrivati. La sveglia era all'alba ed il nostro lavoro consisteva nello scavare canali, per installare tubi nei pressi di un aeroporto, era una sorta di lavoro di manutenzione. Nel campo eravamo in compagnia di russi e uomini di altre nazionalità soprattutto dell'est, mentre gli ebrei erano prigionieri in un campo vicino al nostro e talvolta ci raggiungevano tanto che una volta mi ritrovai a dirigere una squadra composta proprio da ebrei ed avevamo il compito di spianare il terreno per l'installazione di alcuni binari. Per il pranzo, se così vogliamo chiamarlo, che consisteva in 1 kg di pane nero (definito "u scagghiuzz") da suddividere in 7 persone e due patate ancora sporche di terra, si era in compagnia dei prigionieri di altre nazionalità. Proprio per quel che riguarda il cibo ho da raccontare qualche aneddoto».
Ci dica signor Donvito, di cosa si tratta?
«Devo dire che i tedeschi ci prendevano in giro dicendoci: "Buoni gli spaghetti eh", era una situazione particolare. Un giorno però un ingegnere tedesco, per migliorare la nostra produttività decise di salvaguardarci dandoci la possibilità e tramite un cuoco milanese che era tra noi, ci permise di utilizzare gli avanzi della mensa delle reclute tedesche e nutrirci maggiormente. In effetti questo ci permise di lavorare meglio. Altro aneddoto riguarda le patate che come vi ho detto inizialmente mangiavamo crude o al massimo riscaldate sulle stufe. Un giorno, un ebreo mi indicò un sistema per cuocerle: prendere una forchetta ed un cucchiaio, bucarli alle estremità far passare tra le due un filo elettrico per poi immergerle in un secchio metallico pieno di acqua, successivamente inserire in una presa il filo elettrico ed ecco che l'acqua bolliva. Un espediente molto intelligente che ci permise di vivere meglio per un periodo e per fortuna non fu mai scoperto dai tedeschi che sicuramente non lo avrebbero tollerato».
Come è arrivato il momento della liberazione?
«Nei giorni prima dell'approdo degli alleati, riuscimmo ad allontanarci dal campo e rifugiammo in alcune gallerie anti bombardamento nei dintorni. Siamo stati lì per due giorni quando ad un certo punto, all'alba del terzo giorno ci rendemmo contro che i soldati tedeschi non erano più lì a presidiare, eravamo liberi. Era l'8 aprile del 1945 ed a liberarci furono i francesi».
E il ritorno in Italia come è avvenuto?
«Per il ritorno, fu fondamentale la figura di un medico italiano che era di stanza in una città vicina al secondo campo dove ho lavorato (i nomi dei campi non sono risultati rintracciabili e la memoria del signor Donvito in questo caso non ci è stata di aiuto ndr), fu lui a darci le indicazioni necessarie. Il nostro viaggio iniziò con dei carretti, facevamo delle tappe intermedie paese per paese con delle soste necessarie a rifornirci e poi ripartivamo. Dopo parecchi giorni di viaggio, arrivammo in un grande campo di smistamento, sempre in Germania, dove stanziammo per due settimane prima di prendere il treno che ci condusse in Italia dopo ben due anni dall'arrivo in Germania. Era l' 11 settembre del 1945 ed il viaggio di ritorno era durato ben 5 mesi. L'accoglienza della mia famiglia fu commovente, all'arrivo del treno la mia famiglia che abitava nei pressi della stazione, in via Milano, si catapultò a prendermi e ritornando a casa manifestò la gioia per tutto il quartiere».