Valery Borzov: «Nell'atletica serve la fame, Pietro Mennea l'aveva»
Il grande rivale del campionissimo barlettano sulle colonne di Repubblica
mercoledì 14 agosto 2013
1.11
Lo chiamavano l'ucraino dagli occhi di ghiaccio. Valery Borzov nasce a Sambir, in Ucraina il 20/10/1949. Fin dalla giovanissima età dimostrò una buona propensione alla corsa veloce, iniziando col rincorrere il suo cane. Borzov iniziò a farsi notare durante le gare scolastiche, in cui predominava su tutti gli avversari coetanei e non, raggiungendo punte di velocità già notevoli per la sua precoce età. A tredici anni uno studio statistico nazionale lo selezionò come uno dei giovani sportivi più promettenti di cui l'Unione Sovietica potesse usufruire in un futuro prossimo e quindi da tenere d'occhio.
A diciassette anni, Borzov entrò all'Istituto di Cultura Fisica e di Sport a Kiev, luogo in cui ebbe la conoscenza sportiva più importante della sua carriera: il suo allenatore e fisiologo Valentin Petrovsky, il quale trasformò del tutto la vita atletica di Borzov, fino a renderlo antagonista- nel tempo e nello spazio- del campionissimo barlettano Pietro Paolo Mennea sulle piste di atletica di tutto il mondo. Il suo soprannome era "missile a due gambe", a Monaco nel 1972 prese il secondo record europeo ( 20″00), nonché il secondo oro olimpico, arrivando davanti a tutti, con Mennea terzo in 20″30. Della rivalità con la "Freccia del Sud", scomparso all'età di 61 anni il 21 marzo scorso, il campionissimo ucraino ha parlato sulle colonne di Repubblica, in un'intervista che parzialmente riportiamo:
Valery, come andò con Pietro?
«Andai al villaggio olimpico a trovarlo. Avevo portato dei souvenir. Ricambiò con un po' di cognac. Era arrabbiato perché nei 100 era andato male, eliminato in semifinale. Era spento, gentile ma amareggiato. Mi guardò come se mi chiedesse: cosa devo fare? Sembrava aver perso la strada, anche seun anno prima aveva fatto sui 200 quel record strepitoso. Gli dissi che era solo una giornata storta. Capitano, ma bisogna voltare pagina. Lo incoraggiai: vedrai che vinci i 200. Però devi ritrovarti, la miccia bagnata non serve, chiedi a te stesso cosa vuoi e quanto lo vuoi. Non grandi discorsi: io parlavo poco inglese, lui in italiano. Però con gli occhi e con le mani a nostro modo ci siamo capiti. Era il mio erede. Siamo stati gli ultimi bianchi a sfrecciare nello sprint e a dominare, non voglio togliere nulla a Wells, ma io e Mennea abbiamo fatto di più».
Com'erano i rapporti con Mennea?
«Buoni. All'inizio era sospettoso. Era una spugna, mi seguiva, cercava di imparare. Sentivo il suo respiro addosso, i suoi occhi affamati, voleva capire, imitare, afferrare. Nel '71 con il mio allenatore Valentin Petrovsky andammo per un ritiro a Formia e con Carlo Vittori c'era uno scambio di tecnica e di informazioni. Pietro aveva energia e forza vitale. Per gli afroamericani lo sport è un modo di entrare nella società, di avere uno status. Per gli altri significa soldi, patriottismo, egoismo. Lo fai per te stesso, va bene, ma la fame spinge di più. E quella Mennea ce l'aveva».
Lei era il maestro, lui l'allievo.
«Ma agli europei di Praga del '78 ci fu il passaggio di consegne. Pietro vinse 100 e 200, come me nel '71. Ormai mi aveva preso le misure e io avevo problemi ai tendini. Sui 100 fui solo 8°. Mi ritirai l'anno dopo, a 28 anni. Non avevo capito di essere finito, avevo bisogno di uno choc. Il sorpasso di Pietro mi fece capire che non era più aria».
A diciassette anni, Borzov entrò all'Istituto di Cultura Fisica e di Sport a Kiev, luogo in cui ebbe la conoscenza sportiva più importante della sua carriera: il suo allenatore e fisiologo Valentin Petrovsky, il quale trasformò del tutto la vita atletica di Borzov, fino a renderlo antagonista- nel tempo e nello spazio- del campionissimo barlettano Pietro Paolo Mennea sulle piste di atletica di tutto il mondo. Il suo soprannome era "missile a due gambe", a Monaco nel 1972 prese il secondo record europeo ( 20″00), nonché il secondo oro olimpico, arrivando davanti a tutti, con Mennea terzo in 20″30. Della rivalità con la "Freccia del Sud", scomparso all'età di 61 anni il 21 marzo scorso, il campionissimo ucraino ha parlato sulle colonne di Repubblica, in un'intervista che parzialmente riportiamo:
Valery, come andò con Pietro?
«Andai al villaggio olimpico a trovarlo. Avevo portato dei souvenir. Ricambiò con un po' di cognac. Era arrabbiato perché nei 100 era andato male, eliminato in semifinale. Era spento, gentile ma amareggiato. Mi guardò come se mi chiedesse: cosa devo fare? Sembrava aver perso la strada, anche seun anno prima aveva fatto sui 200 quel record strepitoso. Gli dissi che era solo una giornata storta. Capitano, ma bisogna voltare pagina. Lo incoraggiai: vedrai che vinci i 200. Però devi ritrovarti, la miccia bagnata non serve, chiedi a te stesso cosa vuoi e quanto lo vuoi. Non grandi discorsi: io parlavo poco inglese, lui in italiano. Però con gli occhi e con le mani a nostro modo ci siamo capiti. Era il mio erede. Siamo stati gli ultimi bianchi a sfrecciare nello sprint e a dominare, non voglio togliere nulla a Wells, ma io e Mennea abbiamo fatto di più».
Com'erano i rapporti con Mennea?
«Buoni. All'inizio era sospettoso. Era una spugna, mi seguiva, cercava di imparare. Sentivo il suo respiro addosso, i suoi occhi affamati, voleva capire, imitare, afferrare. Nel '71 con il mio allenatore Valentin Petrovsky andammo per un ritiro a Formia e con Carlo Vittori c'era uno scambio di tecnica e di informazioni. Pietro aveva energia e forza vitale. Per gli afroamericani lo sport è un modo di entrare nella società, di avere uno status. Per gli altri significa soldi, patriottismo, egoismo. Lo fai per te stesso, va bene, ma la fame spinge di più. E quella Mennea ce l'aveva».
Lei era il maestro, lui l'allievo.
«Ma agli europei di Praga del '78 ci fu il passaggio di consegne. Pietro vinse 100 e 200, come me nel '71. Ormai mi aveva preso le misure e io avevo problemi ai tendini. Sui 100 fui solo 8°. Mi ritirai l'anno dopo, a 28 anni. Non avevo capito di essere finito, avevo bisogno di uno choc. Il sorpasso di Pietro mi fece capire che non era più aria».
Fonte intervista: www.repubblica.it