La questione siriana affrontata con il cuore
Intervista a Badr Fakhouri, barlettano della Siria. «La prima vittima è sempre la verità»
domenica 8 settembre 2013
11.34
Incontriamo Badr Fakhouri, originario di Aleppo in Siria ma da oltre un ventennio trasferitosi a Barletta, per una sua breve analisi sulla questione riguardante il conflitto che sta per esplodere nel suo Paese. Il tema lo riguarda anche in veste di mediatore culturale e fondatore a Barletta di servizi che riguardano l'accoglienza degli immigrati. La terribile piaga internazionale del conflitto in Medio Oriente ha attirato l'interesse di tutto il mondo, schierandosi a favore o contro la guerra in sé. La soluzione, seppur necessaria, va cercata in altri mezzi rispetto al conflitto armato contro cui oggi il Papa sta celebrando una giornata di aperta condanna, che si spera non lasci incurante in primis il Presidente americano Obama, nobel per la pace.
Una Sua considerazione dello strumento guerra come risolutore dei problemi di politica estera soprattutto da parte degli USA.
La geopolitica finora ha dimostrato che c'è sempre una pianificazione a monte. Ci sono alla base i produttori di armi nel mondo, che costituiscono un potere fortissimo, anche negli Stati Uniti: se non c'è la guerra, il gioco è finito. Innescare una guerra, ovviamente sempre 'lontano da casa', ha sempre una doppia valenza in termini d'interessi: primo quello che deriva dalla vendita delle armi, sia essa da parte di governi regolari, ribelli, estremisti, tiranni, terroristi, quindi l'intera comunità internazionale, interessata in questo commercio, è responsabile di ciò che accade; l'altro aspetto è quello del controllo internazionale, soprattutto su Paesi ex filosovietici, come per alcuni del Medi oriente compreso l'Iran e la Siria, da parte di potenze del mondo occidentale come gli Stati Uniti. Tutta quest' area, a un pezzo alla volta, è stata inglobata nel mondo filoccidentale.
Qual'era la situazione politico-sociale degli ultimi anni in Siria?
In Siria non si sono mai avuti problemi di convivenza tra le diverse etnie o religioni, realizzando da sempre una commistione assolutamente pacifica. L'attenzione del Vaticano ha indicato il paradosso di portare una guerra proprio dove c'è un fulgido esempio di coesistenza tra le diversità. Anche gruppi estremi di terrorismo islamico, come Al Qaeda, non c'entrano nulla nella questione siriana, a dimostrazione che le motivazioni religiose non sono affatto al centro di tale conflitto, ma come sempre accade ci sono interessi e politiche che determinano queste gravissime situazioni. Nel 1971 quando è arrivato Assad, è stato accolto con grande benvolere da tutto il popolo siriano perché rappresentava il "nuovo", la speranza dopo un governo disastroso; come spesso accade nelle diverse parti del mondo, si pensa che le nuove figure di governo possano portare soluzioni per il Paese. Invece, con il tempo, la realtà è sprofondata sempre più in un regime totalitario, dove sono state tolte anche le libertà più fondamentali. Inoltre l'embargo internazionale, partito quasi subito, ha prodotto una razionalizzazione dei viveri molto dura, paragonabile alla situazione in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale. Dopo circa un trentennio così si è affacciato al potere il figlio di Assad, questo ha dimostrato, nella sua inadeguatezza al comando, una certa apertura all'Occidente. Ma non si può cambiare l'assetto politico-sociale di un paese dall'oggi al domani: richiede un percorso lungo e lento. Così si sono avute alcune libertà, apertura con alcuni paesi occidentali, anche nel commercio.
Le cose andavano nel verso giusto, ma la cosa non andava bene al potere e ad altri paesi esteri. Io sono stato in Siria quattro anni fa e posso garantire che la grande crescita era visibile sotto ogni aspetto. C'erano negli ultimi anni davvero buone prospettive per il futuro. È chiaro che un popolo che si evolve, anche culturalmente, si avvicina alla libertà e all'autonomia e questo non può piacere a una dittatura. Per quanto riguarda la politica internazionale, bisogna tenere a bada l'evoluzione di determinati Paesi: ad esempio in Africa ci sono Stati con grandissime risorse a cui tuttavia non si vuole concedere una vera via verso l'evoluzione.
Come vivi le condizioni del tuo Paese, seppur molto distante?
È difficile esprimere il mio stato d'animo in questo momento: questo pensiero mi toglie la concentrazione, la tranquillità, rendendomi nervoso, irritandomi anche per cose banali a causa della tensione. La mia famiglia è numerosa, ma penso anche agli amici, a conoscenti o anche che non conosco che si trovano a vivere la stessa condizione di sofferenza. Imputo alla Comunità internazionale di aver lasciato degenerare la situazione fino a questo punto. Non si può pensare che le armi chimiche siano arrivate dal nulla, si deve fermare questo tipo di commercio. Personalmente non sono né pro Assad né pro ribelli, ma penso che come sempre accade in queste situazioni la prima vittima sia la verità: non si capisce chi ha ragione e chi ha torto. Anche i media occidentali sono colpevoli di non aver fornito le giuste informazioni in questi anni e in questi ultimi mesi. Ieri a Barletta si è celebrata la Notte Rosa in favore dei diritti delle donne, pensiamo anche alle donne siriane vittime di decine di migliaia di violenze sessuali in questi ultimi anni, ma questo non è emerso nella cosiddetta informazione libera.
Guerra vuol dire anche ondate migratorie.
Ciò amplifica il mio dolore: ho lavorato in questi anni per l'accoglienza di cittadini di mezzo mondo, ma mai avrei pensato di dover pensare a un'emergenza migratoria proveniente proprio dal mio Paese.
Una Sua considerazione dello strumento guerra come risolutore dei problemi di politica estera soprattutto da parte degli USA.
La geopolitica finora ha dimostrato che c'è sempre una pianificazione a monte. Ci sono alla base i produttori di armi nel mondo, che costituiscono un potere fortissimo, anche negli Stati Uniti: se non c'è la guerra, il gioco è finito. Innescare una guerra, ovviamente sempre 'lontano da casa', ha sempre una doppia valenza in termini d'interessi: primo quello che deriva dalla vendita delle armi, sia essa da parte di governi regolari, ribelli, estremisti, tiranni, terroristi, quindi l'intera comunità internazionale, interessata in questo commercio, è responsabile di ciò che accade; l'altro aspetto è quello del controllo internazionale, soprattutto su Paesi ex filosovietici, come per alcuni del Medi oriente compreso l'Iran e la Siria, da parte di potenze del mondo occidentale come gli Stati Uniti. Tutta quest' area, a un pezzo alla volta, è stata inglobata nel mondo filoccidentale.
Qual'era la situazione politico-sociale degli ultimi anni in Siria?
In Siria non si sono mai avuti problemi di convivenza tra le diverse etnie o religioni, realizzando da sempre una commistione assolutamente pacifica. L'attenzione del Vaticano ha indicato il paradosso di portare una guerra proprio dove c'è un fulgido esempio di coesistenza tra le diversità. Anche gruppi estremi di terrorismo islamico, come Al Qaeda, non c'entrano nulla nella questione siriana, a dimostrazione che le motivazioni religiose non sono affatto al centro di tale conflitto, ma come sempre accade ci sono interessi e politiche che determinano queste gravissime situazioni. Nel 1971 quando è arrivato Assad, è stato accolto con grande benvolere da tutto il popolo siriano perché rappresentava il "nuovo", la speranza dopo un governo disastroso; come spesso accade nelle diverse parti del mondo, si pensa che le nuove figure di governo possano portare soluzioni per il Paese. Invece, con il tempo, la realtà è sprofondata sempre più in un regime totalitario, dove sono state tolte anche le libertà più fondamentali. Inoltre l'embargo internazionale, partito quasi subito, ha prodotto una razionalizzazione dei viveri molto dura, paragonabile alla situazione in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale. Dopo circa un trentennio così si è affacciato al potere il figlio di Assad, questo ha dimostrato, nella sua inadeguatezza al comando, una certa apertura all'Occidente. Ma non si può cambiare l'assetto politico-sociale di un paese dall'oggi al domani: richiede un percorso lungo e lento. Così si sono avute alcune libertà, apertura con alcuni paesi occidentali, anche nel commercio.
Le cose andavano nel verso giusto, ma la cosa non andava bene al potere e ad altri paesi esteri. Io sono stato in Siria quattro anni fa e posso garantire che la grande crescita era visibile sotto ogni aspetto. C'erano negli ultimi anni davvero buone prospettive per il futuro. È chiaro che un popolo che si evolve, anche culturalmente, si avvicina alla libertà e all'autonomia e questo non può piacere a una dittatura. Per quanto riguarda la politica internazionale, bisogna tenere a bada l'evoluzione di determinati Paesi: ad esempio in Africa ci sono Stati con grandissime risorse a cui tuttavia non si vuole concedere una vera via verso l'evoluzione.
Come vivi le condizioni del tuo Paese, seppur molto distante?
È difficile esprimere il mio stato d'animo in questo momento: questo pensiero mi toglie la concentrazione, la tranquillità, rendendomi nervoso, irritandomi anche per cose banali a causa della tensione. La mia famiglia è numerosa, ma penso anche agli amici, a conoscenti o anche che non conosco che si trovano a vivere la stessa condizione di sofferenza. Imputo alla Comunità internazionale di aver lasciato degenerare la situazione fino a questo punto. Non si può pensare che le armi chimiche siano arrivate dal nulla, si deve fermare questo tipo di commercio. Personalmente non sono né pro Assad né pro ribelli, ma penso che come sempre accade in queste situazioni la prima vittima sia la verità: non si capisce chi ha ragione e chi ha torto. Anche i media occidentali sono colpevoli di non aver fornito le giuste informazioni in questi anni e in questi ultimi mesi. Ieri a Barletta si è celebrata la Notte Rosa in favore dei diritti delle donne, pensiamo anche alle donne siriane vittime di decine di migliaia di violenze sessuali in questi ultimi anni, ma questo non è emerso nella cosiddetta informazione libera.
Guerra vuol dire anche ondate migratorie.
Ciò amplifica il mio dolore: ho lavorato in questi anni per l'accoglienza di cittadini di mezzo mondo, ma mai avrei pensato di dover pensare a un'emergenza migratoria proveniente proprio dal mio Paese.