Il tricolore senza notti magiche
L'essenza di una bandiera finalmente al centro dei nostri pensieri e le emozioni rimandate delle sere di giugno
giovedì 18 giugno 2020
L'aria è quella giusta, tiepida e a volte frizzantina delle sere di giugno, quando l'odore del mare arriva fin dentro le case e la voglia di vita ti assale. Una vita condivisa, sul divano di casa, in perfetta scaramantica solitudine o con gli amici a grupponi, passata anche dietro ad un'emozione, dietro ad un pallone calciato in una rete.
Sarebbero state le "notti magiche" (come cantava il duo Bennato-Nannini nel 1990) di un Campionato europeo di calcio giocato per una parte in casa, a Roma, con gli azzurri in campo a sfidare Turchia, Svizzera e Galles, capaci di sognare Wembley e risvegliare il senso patrio sopito.
L'imprevista pandemia, i dolori acuti ed i lutti hanno paradossalmente permesso a quei tricolori, spuntati pian piano in marzo sui nostri balconi, di scrollarsi la polvere delle soffitte, dei bauli in garage, delle cantine e di ridiventare simbolo unitario, questa volta non contro un avversario sul campo, ma un nemico invisibile all'uscio di casa.
Sarebbero state, da venerdì 12 giugno, le serate del silenzio per strada non per la paura del "mostro", ma per l'attesa di una gioia grande, che avrebbe significato di più di una semplice vittoria a pallone. Sarebbero state le notti magiche della festa in piazza, delle bandiere sventolanti nei caroselli, dell'urlo che sarebbe rimbalzato di finestra aperta in finestra aperta, fino ad esplodere in un unico boato.
Benedetti tricolori che hanno soppiantato in molti casi quell'"Andrà tutto bene" apparso come uno sberleffo alle 34mila e passa croci davanti a cui dovremo inginocchiarci.
Il pallone ha ripreso a rotolare a porte chiuse, perché è un'industria che fattura l'1,5% del PIL nazionale (dando da mangiare non ai campioni ma a tante famiglie) o semplicemente perché è un'ottima medicina contro i malumori di un Paese scopertosi indifeso ed ora più povero. Medicina necessaria, almeno dal nostro punto di vista.
Quei tricolori ai balconi, oggi hanno un senso finalmente più profondo e rappresentano l'omaggio non ai campioni adepti del Dio "Eupalla", come lo avrebbe chiamato Gianni Brera, vestiti d'azzurro, amatissimi al primo gol e contestatissimi al primo errore dai 58 milioni di commissari tecnici che in Italia abbiamo, ma materializzano la riconoscenza al personale sanitario che ha giocato in difesa e poi è ripartito in contropiede contro il virus.
Lasciamole lì quelle bandiere, allora, a testimoniare la nostra paura, la nostra voglia di riscatto, il nostro senso d'appartenenza che non è più, finalmente, una parolaccia.
Sarà il 2021, si spera, l'anno delle feste in piazza, dei gol sognati, dei capannelli per strada nei giorni tra una gara e l'altra a sperare che francesi, spagnoli e tedeschi, sempre quelli, facciano peggio di noi. Sul campo di calcio, s'intende, nell'effimero e meraviglioso gioco del pallone che riporterà gioia nelle nostre case e nelle nostre esistenze.
Sarebbero state le "notti magiche" (come cantava il duo Bennato-Nannini nel 1990) di un Campionato europeo di calcio giocato per una parte in casa, a Roma, con gli azzurri in campo a sfidare Turchia, Svizzera e Galles, capaci di sognare Wembley e risvegliare il senso patrio sopito.
L'imprevista pandemia, i dolori acuti ed i lutti hanno paradossalmente permesso a quei tricolori, spuntati pian piano in marzo sui nostri balconi, di scrollarsi la polvere delle soffitte, dei bauli in garage, delle cantine e di ridiventare simbolo unitario, questa volta non contro un avversario sul campo, ma un nemico invisibile all'uscio di casa.
Sarebbero state, da venerdì 12 giugno, le serate del silenzio per strada non per la paura del "mostro", ma per l'attesa di una gioia grande, che avrebbe significato di più di una semplice vittoria a pallone. Sarebbero state le notti magiche della festa in piazza, delle bandiere sventolanti nei caroselli, dell'urlo che sarebbe rimbalzato di finestra aperta in finestra aperta, fino ad esplodere in un unico boato.
Benedetti tricolori che hanno soppiantato in molti casi quell'"Andrà tutto bene" apparso come uno sberleffo alle 34mila e passa croci davanti a cui dovremo inginocchiarci.
Il pallone ha ripreso a rotolare a porte chiuse, perché è un'industria che fattura l'1,5% del PIL nazionale (dando da mangiare non ai campioni ma a tante famiglie) o semplicemente perché è un'ottima medicina contro i malumori di un Paese scopertosi indifeso ed ora più povero. Medicina necessaria, almeno dal nostro punto di vista.
Quei tricolori ai balconi, oggi hanno un senso finalmente più profondo e rappresentano l'omaggio non ai campioni adepti del Dio "Eupalla", come lo avrebbe chiamato Gianni Brera, vestiti d'azzurro, amatissimi al primo gol e contestatissimi al primo errore dai 58 milioni di commissari tecnici che in Italia abbiamo, ma materializzano la riconoscenza al personale sanitario che ha giocato in difesa e poi è ripartito in contropiede contro il virus.
Lasciamole lì quelle bandiere, allora, a testimoniare la nostra paura, la nostra voglia di riscatto, il nostro senso d'appartenenza che non è più, finalmente, una parolaccia.
Sarà il 2021, si spera, l'anno delle feste in piazza, dei gol sognati, dei capannelli per strada nei giorni tra una gara e l'altra a sperare che francesi, spagnoli e tedeschi, sempre quelli, facciano peggio di noi. Sul campo di calcio, s'intende, nell'effimero e meraviglioso gioco del pallone che riporterà gioia nelle nostre case e nelle nostre esistenze.