Un sì alla morte è una scelta di vita? Se ne discute a Barletta con Beppino Englaro
Bioetica, medicina e diritto i tre osservatori del dibattito
venerdì 17 gennaio 2014
11.30
"Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti" potrebbe essere l'invito della riflessione di ieri, avvenuta nella Sala rossa del Castello svevo di Barletta, in occasione del convegno organizzato dal Rotary Club Barletta dal titolo "Liberi di decidere: dov'è il confine tra cura e accanimento terapeutico?", ma di fatto è il passo finale del capolavoro storico-umano della Yourcenar. L'ostacolo, non di poco conto, è che il più delle volte chi accetta l'invito ha gli occhi chiusi, non è risvegliabile, è in coma. E allora capita di dover combattere per 17 anni, cercare di ricostruire le testimonianze del pensiero morale, filosofico e religioso di chi non può parlare, cercare di far valere le sue volontà, perché sono queste a determinare la vita, quella effettiva. Ecco quello che è accaduto al padre di Eluana Englaro, una figura emblematica che si è trovato davanti un'Italia ignava, sorda e immobile. «Come non lo sai?-mi dicevano- l'unico diritto che hai in questi casi è di non avere diritti. Devi lasciare fare a loro, sono medici. Guardate, questa è una vicenda molto semplice e lineare: per la Costituzione italiana, io ho il diritto di non sottopormi alle cure mediche, di dire no all'offerta terapeutica. Semplicemente si è violato il diritto di scelta di Eluana, una ragazza per la quale il rispetto verso se stessa era prioritario». Queste le lucide parole di Beppino Englaro, che continua: «Era un tabù parlarne, ho trovato il deserto nella gente e nelle istituzioni. Anche quando è stata in ballo la vita, non si sono risparmiati i conflitti di potere e di attribuzione tra Parlamento e Magistratura. Nonostante siano passati 22 anni, queste vicende hanno ancora una difesa giuridica sperimentale; non esiste in questo senso una pratica riconosciuta come legge».
Le affermazioni di Englaro sono confermate dall'ordinario di diritto privato dell'Università "A.Moro" di Bari Michele Lobuono: «Effettivamente, c'è un vuoto legislativo, ma non giuridico. Questo vuol dire che il diritto prevede delle disposizioni applicative per ogni caso, anche se manca una legge. Il giurista va incontro alle difficoltà interpretative caso per caso, perché deve fare i conti con il valore personale dell'indisponibilità della vita, una sensazione del tutto soggettiva e per nulla sindacabile». Sempre a proposito di errori ermeneutici e di linguaggio, interviene il Dott. Michele Debitonto, dirigente medico del reparto di rianimazione del "Dimiccoli" di Barletta: «Il termine accanimento terapeutico è ossimorico, perché la terapia ha un intento positivo, l'accanimento è un metodo nocivo. La medicina parla di terapie utili e inutili ai fini della guarigione; così come si parla di dichiarazioni anticipate di fine vita per definire l'altrettanto contradditorio testamento biologico. Il testamento comprende le volontà del defunto, qui si sta parlando di volontà reali o addirittura immaginarie di chi è ancora in vita: infatti, anche chi gode di un ottimo stato di salute può dichiarare le sue volontà riguardo il trattamento medico in caso di un'eventuale malattia. Il medico non è il pioniere di una vita senza limiti, ma la sua deontologia si basa sul rapporto col paziente; rapporto che ha una ragion d'essere in virtù della fiducia che lo stesso paziente ripone nel medico e nelle sue competenze per far valere la vita e non dare spazio alla morte».
Di diverso orientamento sono le parole del Prof. Francesco Bellino, esperto in bioetica: «Io vorrei tanto che si riportasse in auge la sacralità classica della morte. La società contemporanea è troppo patofoba per comprendere questo: la sofferenza è da evitare, la morte non va pensata, la vita prolungata a ogni costo. Non si sceglie di nascere, ma si può scegliere di vivere, anche in punto di morte. Siamo eredi di una struttura sociale fortemente individualista, ma l'uomo è essere relazionale, non può prescindere dai suoi legami, fossero anche solo quelli generativi. E' il nostro grande debito e dobbiamo sanarlo fino all'ultimo respiro. La morte determina la vita perché sono le sue rappresentazioni ad essere vivide. Così come per Eluana la vita era l'interruzione della morte e la ripresa della prima; per lei la vita era un'attribuzione di senso personale, non eteronoma. Qui la medicina dovrebbe imparare a fare qualche passo indietro, a non evolvere così forzatamente al punto da promuovere una vita senza limiti. E' grazie ai limiti che la vita si fa preziosa ai nostri occhi; qui il medico dovrebbe riconoscere i suoi e farsi da parte. Il sistema sanitario dovrebbe sostituire il termine paziente con il termine persona: il soggetto malato non è una res, una cosa, ma è una coscienza in grado di autodeterminarsi e nessun ordinamento giuridico/sanitario può opporsi a questo».
Englaro conclude: «Citando Sciascia, non è la speranza l'ultima a morire, ma a volte è proprio la morte a essere l'ultima speranza. La medicina dovrebbe essere al servizio della vita e della persona che ne vuole far parte, seppur nella sua complessità paradossale. Dopo la peste del linguaggio di Quagliarello e di chi ancora mi considera un assassino, sono sereno perché ho avuto contro tutti, meno che me stesso».
Le affermazioni di Englaro sono confermate dall'ordinario di diritto privato dell'Università "A.Moro" di Bari Michele Lobuono: «Effettivamente, c'è un vuoto legislativo, ma non giuridico. Questo vuol dire che il diritto prevede delle disposizioni applicative per ogni caso, anche se manca una legge. Il giurista va incontro alle difficoltà interpretative caso per caso, perché deve fare i conti con il valore personale dell'indisponibilità della vita, una sensazione del tutto soggettiva e per nulla sindacabile». Sempre a proposito di errori ermeneutici e di linguaggio, interviene il Dott. Michele Debitonto, dirigente medico del reparto di rianimazione del "Dimiccoli" di Barletta: «Il termine accanimento terapeutico è ossimorico, perché la terapia ha un intento positivo, l'accanimento è un metodo nocivo. La medicina parla di terapie utili e inutili ai fini della guarigione; così come si parla di dichiarazioni anticipate di fine vita per definire l'altrettanto contradditorio testamento biologico. Il testamento comprende le volontà del defunto, qui si sta parlando di volontà reali o addirittura immaginarie di chi è ancora in vita: infatti, anche chi gode di un ottimo stato di salute può dichiarare le sue volontà riguardo il trattamento medico in caso di un'eventuale malattia. Il medico non è il pioniere di una vita senza limiti, ma la sua deontologia si basa sul rapporto col paziente; rapporto che ha una ragion d'essere in virtù della fiducia che lo stesso paziente ripone nel medico e nelle sue competenze per far valere la vita e non dare spazio alla morte».
Di diverso orientamento sono le parole del Prof. Francesco Bellino, esperto in bioetica: «Io vorrei tanto che si riportasse in auge la sacralità classica della morte. La società contemporanea è troppo patofoba per comprendere questo: la sofferenza è da evitare, la morte non va pensata, la vita prolungata a ogni costo. Non si sceglie di nascere, ma si può scegliere di vivere, anche in punto di morte. Siamo eredi di una struttura sociale fortemente individualista, ma l'uomo è essere relazionale, non può prescindere dai suoi legami, fossero anche solo quelli generativi. E' il nostro grande debito e dobbiamo sanarlo fino all'ultimo respiro. La morte determina la vita perché sono le sue rappresentazioni ad essere vivide. Così come per Eluana la vita era l'interruzione della morte e la ripresa della prima; per lei la vita era un'attribuzione di senso personale, non eteronoma. Qui la medicina dovrebbe imparare a fare qualche passo indietro, a non evolvere così forzatamente al punto da promuovere una vita senza limiti. E' grazie ai limiti che la vita si fa preziosa ai nostri occhi; qui il medico dovrebbe riconoscere i suoi e farsi da parte. Il sistema sanitario dovrebbe sostituire il termine paziente con il termine persona: il soggetto malato non è una res, una cosa, ma è una coscienza in grado di autodeterminarsi e nessun ordinamento giuridico/sanitario può opporsi a questo».
Englaro conclude: «Citando Sciascia, non è la speranza l'ultima a morire, ma a volte è proprio la morte a essere l'ultima speranza. La medicina dovrebbe essere al servizio della vita e della persona che ne vuole far parte, seppur nella sua complessità paradossale. Dopo la peste del linguaggio di Quagliarello e di chi ancora mi considera un assassino, sono sereno perché ho avuto contro tutti, meno che me stesso».
Beppino Englaro ha raccontato le tappe della tragedia di sua figlia Eluana, nell'intervista a Barlettalife, pubblicata ieri.