«Soffocati da tute, guanti e responsabilità», chiude il reparto Covid a Barletta
L'emozionante lettera di una infermiera racconta l'emergenza sanitaria
venerdì 4 giugno 2021
10.33
La sofferenza, il sacrificio, la disperazione e poi la tenacia. Il personale medico è stato indubbiamente in prima linea in questa lotta al Covid che ancora continua. L'ospedale di Barletta sta tornando verso la normalità e così una infermiera ha voluto condividere le sue emozioni e il suo racconto di questi ultimi mesi in una lettera che di seguito pubblichiamo.
«Ormai volge al termine l'ultima notte nel reparto COVID. Sono passati 7 mesi da quando il nostro ospedale è stato coinvolto in questa terribile situazione. L'inizio, certo, è stato brutale: catapultati in una realtà nuova per tutti. Impossibile dimenticare l'incapacità di doversi districare in un mondo strano: la difficoltà di trovare gli spazi giusti per vestirsi e soprattutto svestirsi; i percorsi assenti; i DPI carenti (con taglie non per tutti). La paura di contaminarsi, le lacrime di chi credeva di non farcela a lavorare in un reparto così complesso; lo stupore di chi, pur lavorando nello stesso ospedale, non credeva quanto fosse difficile stare a contatto con i pazienti COVID; la mancanza di collaborazione di taluni colleghi che anziché fare gruppo ha voluto a tutti i costi allontanarsi definitivamente. Il nostro ospedale preso d'assalto da fiumi di gente malata. Come non ricordare le centinaia di persone che abbiamo perso: mogli e mariti, genitori, figli, famiglie sterminate.
Eppure giorno dopo giorno, seppure soffocati dal peso di tanta responsabilità e da quelle tute, maschere, guanti, calzari, siamo arrivati a riprenderci il nostro ospedale, ad allontanare, speriamo per sempre, il maledetto virus. Nessuno ha mai visto i nostri volti ma certamente quanto hanno parlato i nostri occhi: hanno pianto, riso, accarezzato ogni singolo paziente; le nostre voci hanno consolato i parenti che, appesi ad una ' telefonata, aspettavano ogni giorno una notizia positiva. I numeri sono davvero impressionanti: circa 1300 pazienti, tanti davvero tanti coloro che non ce l'hanno fatta, spesso vittime di un sistema *che ha preferito dare una chance a coloro che avevano un'aspettativa di vita maggiore. I poveri anziani molto spesso "vittime sacrificali", eroi a loro insaputa. Cosa rimane nelle nostre anime e nelle nostre vite di questi sette mesi? Un turbinio di emozioni, ma soprattutto il dolore: per non essere sti sostenuti nel nostro umile e duro lavoro da chi, nella stanza dei bottoni, gestiva senza capire che dall'altra parte non c'era una scacchiera dove muovere le pedine, ma persone che prima di tutto avevano bisogno del sostegno morale e materiale; sconforto e tristezza per non aver potuto fare di più per tutte le vite spezzate; rabbia per quei colleghi che non hanno creduto e non credono tuttora quanto sia difficile assistere e curare questa particolare categoria di pazienti. Vorrei concludere con una nota positiva: la gioia di aver condiviso nel bene e nel male questa esperienza, gli incontri con persone stupende che umilmente prestano servizio in questo luogo.
A tutti voi, con i quali ho condiviso questi mesi, va il mio grazie, stima, ammirazione».
«Ormai volge al termine l'ultima notte nel reparto COVID. Sono passati 7 mesi da quando il nostro ospedale è stato coinvolto in questa terribile situazione. L'inizio, certo, è stato brutale: catapultati in una realtà nuova per tutti. Impossibile dimenticare l'incapacità di doversi districare in un mondo strano: la difficoltà di trovare gli spazi giusti per vestirsi e soprattutto svestirsi; i percorsi assenti; i DPI carenti (con taglie non per tutti). La paura di contaminarsi, le lacrime di chi credeva di non farcela a lavorare in un reparto così complesso; lo stupore di chi, pur lavorando nello stesso ospedale, non credeva quanto fosse difficile stare a contatto con i pazienti COVID; la mancanza di collaborazione di taluni colleghi che anziché fare gruppo ha voluto a tutti i costi allontanarsi definitivamente. Il nostro ospedale preso d'assalto da fiumi di gente malata. Come non ricordare le centinaia di persone che abbiamo perso: mogli e mariti, genitori, figli, famiglie sterminate.
Eppure giorno dopo giorno, seppure soffocati dal peso di tanta responsabilità e da quelle tute, maschere, guanti, calzari, siamo arrivati a riprenderci il nostro ospedale, ad allontanare, speriamo per sempre, il maledetto virus. Nessuno ha mai visto i nostri volti ma certamente quanto hanno parlato i nostri occhi: hanno pianto, riso, accarezzato ogni singolo paziente; le nostre voci hanno consolato i parenti che, appesi ad una ' telefonata, aspettavano ogni giorno una notizia positiva. I numeri sono davvero impressionanti: circa 1300 pazienti, tanti davvero tanti coloro che non ce l'hanno fatta, spesso vittime di un sistema *che ha preferito dare una chance a coloro che avevano un'aspettativa di vita maggiore. I poveri anziani molto spesso "vittime sacrificali", eroi a loro insaputa. Cosa rimane nelle nostre anime e nelle nostre vite di questi sette mesi? Un turbinio di emozioni, ma soprattutto il dolore: per non essere sti sostenuti nel nostro umile e duro lavoro da chi, nella stanza dei bottoni, gestiva senza capire che dall'altra parte non c'era una scacchiera dove muovere le pedine, ma persone che prima di tutto avevano bisogno del sostegno morale e materiale; sconforto e tristezza per non aver potuto fare di più per tutte le vite spezzate; rabbia per quei colleghi che non hanno creduto e non credono tuttora quanto sia difficile assistere e curare questa particolare categoria di pazienti. Vorrei concludere con una nota positiva: la gioia di aver condiviso nel bene e nel male questa esperienza, gli incontri con persone stupende che umilmente prestano servizio in questo luogo.
A tutti voi, con i quali ho condiviso questi mesi, va il mio grazie, stima, ammirazione».