Omicidio Lasala, il valore della giustizia: le parole del giudice Messina
«Le esperienze tragiche che investono una comunità dovrebbero portare allo scavo della coscienza da parte di ciascuno»
mercoledì 10 novembre 2021
9.58
Giustizia, responsabilità, consapevolezza: tra i numerosi interventi raccolti nei giorni scorsi dopo il tragico omicidio del giovane Claudio Lasala, quello che ci giunge dal giudice barlettano Francesco Messina pone l'accento su concetti che sono rimasti più ai margini. Nei giorni immediatamente successivi al fatto di cronaca e ai funerali del ragazzo, si è sviluppata un'onda emozionale che ha portato tanti lettori a scriverci. Oggi ci soffermiamo sulle parole del giudice Messina, che offre un pensiero di diverso genere.
"La giustizia deve fare il suo corso". «È la frase più utilizzata nei casi tragici come quello accaduto a Barletta giorni fa (e fatti gravi sono avvenuti anche a Bisceglie e Corato). E poi c'è l'altra, opposta: "Non credo più nella giustizia". Due stereotipi, mentali e pratici, a cui si aggrappano coloro che di fronte a un problema lo collocano sempre "fuori" di sé. O delegando ad altri il peso delle indagini e delle decisioni (forze dell'ordine e magistratura); oppure, con scetticismo, negando che sia possibile qualsiasi soluzione. In entrambi i casi, si dà concretezza, anche con le parole, alla rimozione delle proprie responsabilità.
E, invece, bisognerebbe riflettere sul fatto che il "corso" che si auspica non riguarda tanto la "giustizia", quanto la legge, il diritto e chi opera professionalmente in quel contesto. Il processo penale ha una "materialità", una visibilità di ruoli, di atti, di persone in cui i cittadini possono constatare l'esistenza e l'azione specifica dell'Istituzione giudiziaria. Diversamente, la "giustizia", sia come sentimento che come proiezione o desiderio personale o di una comunità, dovrebbe "fare il suo corso" in senso collettivo. È la città che, per prima, dovrebbe riflettere e ritrovarsi intorno a ciò che ritiene sia "giusto" e, quindi, anche "buono".
Essere "giusti" significa saper selezionare e scegliere. Significa guardare (non per sé, ma per tutti) un determinato orizzonte piuttosto che un altro. Significa ponderare emozione e ragione, anche in silenzio, prima di esprimere un giudizio. Significa cercare gli strumenti culturali per stabilire quali siano le priorità affinché un luogo, una città, siano attraenti, produttivi e sicuri. Significa capire che la parola "sicurezza" non riguarda solo l'ordine pubblico, ma ne richiama altre come "rispetto", "coerenza", "etica sociale", "solidarietà", aiuto concreto e immediato a chi ha subìto o sta subendo una violenza o anche solo non ha tutela.
Da tempo si cita la Costituzione in modo banale o per dare spazio a narcisismi. Bisognerebbe ricordare che tra le parole più impegnative che vi si leggono ci sono "concorre" e "compito". Sono parole che hanno significati densi perché implicano un "dover costruire" singolo e collettivo. Rendono necessaria - in tutti i cittadini - una prospettiva, un agire "pensato" e condiviso.
La giustizia (e il suo "corso", così tanto preteso da altri) non è qualcosa di "esterno", l'ennesima astrazione sulla quale misurare il grado di ipocrisia raggiunto da una comunità che, tragicamente, cerca di nascondere la verità a se stessa. Né bastano i riti emotivi o gli auspici di stile per sopperire alla mancanza di un'analisi profonda su come sono mutati negli ultimi anni la vivibilità di un territorio, la qualità del tempo offerta e ricercata dai cittadini, il desiderio di rimanere o di tornarci.
Tra parole scritte da molti adolescenti a commento dei fatti tragici degli ultimi giorni le più usate sono "rabbia", "libertà", "felicità", queste ultime due senza ulteriori definizioni e intese come "necessità" esclusivamente personali e a sottolinearne la mancanza. Quasi nessuno di essi ha indicato la parola "responsabilità", cioè l'abitudine, oltre che la capacità, di fare/farsi domande e di cercare risposte nel contesto in cui si vive.
Eppure una comunità (non solo le forze dell'ordine e i magistrati) dovrebbe sentire l'urgenza diffusa che "libertà" e "felicità" siano termini da rapportare a "giustizia", quale ricerca del punto di equilibrio, consapevolezza del limite. Sono temi che diventano parte della discussione pubblica quasi sempre in stretta connessione con i fatti di sangue. Sulla spinta dell'emotività, si possono raggiungere anche punte alte di reazione civile.
L'emozione può essere occasione e motore potente, certo. Ma da sola non basta. Una comunità deve riconoscersi nel "tempo della razionalità", e non solo in quello dei sentimenti. Aver cognizione del dolore impone costanza e competenza, determinazione e pazienza. Ma non solo.
Le esperienze tragiche che investono una comunità, oltre che portare all'affetto e alla solidarietà verso chi ha perso una persona cara e buona, dovrebbero portare allo scavo della coscienza da parte di ciascuno. Scavare nella coscienza significa, soprattutto, conoscere e, poi, praticare la "misura" nel vivere personale e collettivo. Lo si fa insegnando, imparando e, quindi, sapendo collettivamente che fuori da quella "misura", da quella "giustizia" a cui si deve concorrere, c'è solo la profondità dell'abisso, di ciò che pretendiamo di essere, ma non siamo.
Forse non si trova più la "giusta misura" perché non siamo più abituati a vedere quell'abisso, non ne si coglie più il pericolo. E cosi si rischia di esserne, tutti, inesorabilmente inghiottiti».
"La giustizia deve fare il suo corso". «È la frase più utilizzata nei casi tragici come quello accaduto a Barletta giorni fa (e fatti gravi sono avvenuti anche a Bisceglie e Corato). E poi c'è l'altra, opposta: "Non credo più nella giustizia". Due stereotipi, mentali e pratici, a cui si aggrappano coloro che di fronte a un problema lo collocano sempre "fuori" di sé. O delegando ad altri il peso delle indagini e delle decisioni (forze dell'ordine e magistratura); oppure, con scetticismo, negando che sia possibile qualsiasi soluzione. In entrambi i casi, si dà concretezza, anche con le parole, alla rimozione delle proprie responsabilità.
E, invece, bisognerebbe riflettere sul fatto che il "corso" che si auspica non riguarda tanto la "giustizia", quanto la legge, il diritto e chi opera professionalmente in quel contesto. Il processo penale ha una "materialità", una visibilità di ruoli, di atti, di persone in cui i cittadini possono constatare l'esistenza e l'azione specifica dell'Istituzione giudiziaria. Diversamente, la "giustizia", sia come sentimento che come proiezione o desiderio personale o di una comunità, dovrebbe "fare il suo corso" in senso collettivo. È la città che, per prima, dovrebbe riflettere e ritrovarsi intorno a ciò che ritiene sia "giusto" e, quindi, anche "buono".
Essere "giusti" significa saper selezionare e scegliere. Significa guardare (non per sé, ma per tutti) un determinato orizzonte piuttosto che un altro. Significa ponderare emozione e ragione, anche in silenzio, prima di esprimere un giudizio. Significa cercare gli strumenti culturali per stabilire quali siano le priorità affinché un luogo, una città, siano attraenti, produttivi e sicuri. Significa capire che la parola "sicurezza" non riguarda solo l'ordine pubblico, ma ne richiama altre come "rispetto", "coerenza", "etica sociale", "solidarietà", aiuto concreto e immediato a chi ha subìto o sta subendo una violenza o anche solo non ha tutela.
Da tempo si cita la Costituzione in modo banale o per dare spazio a narcisismi. Bisognerebbe ricordare che tra le parole più impegnative che vi si leggono ci sono "concorre" e "compito". Sono parole che hanno significati densi perché implicano un "dover costruire" singolo e collettivo. Rendono necessaria - in tutti i cittadini - una prospettiva, un agire "pensato" e condiviso.
La giustizia (e il suo "corso", così tanto preteso da altri) non è qualcosa di "esterno", l'ennesima astrazione sulla quale misurare il grado di ipocrisia raggiunto da una comunità che, tragicamente, cerca di nascondere la verità a se stessa. Né bastano i riti emotivi o gli auspici di stile per sopperire alla mancanza di un'analisi profonda su come sono mutati negli ultimi anni la vivibilità di un territorio, la qualità del tempo offerta e ricercata dai cittadini, il desiderio di rimanere o di tornarci.
Tra parole scritte da molti adolescenti a commento dei fatti tragici degli ultimi giorni le più usate sono "rabbia", "libertà", "felicità", queste ultime due senza ulteriori definizioni e intese come "necessità" esclusivamente personali e a sottolinearne la mancanza. Quasi nessuno di essi ha indicato la parola "responsabilità", cioè l'abitudine, oltre che la capacità, di fare/farsi domande e di cercare risposte nel contesto in cui si vive.
Eppure una comunità (non solo le forze dell'ordine e i magistrati) dovrebbe sentire l'urgenza diffusa che "libertà" e "felicità" siano termini da rapportare a "giustizia", quale ricerca del punto di equilibrio, consapevolezza del limite. Sono temi che diventano parte della discussione pubblica quasi sempre in stretta connessione con i fatti di sangue. Sulla spinta dell'emotività, si possono raggiungere anche punte alte di reazione civile.
L'emozione può essere occasione e motore potente, certo. Ma da sola non basta. Una comunità deve riconoscersi nel "tempo della razionalità", e non solo in quello dei sentimenti. Aver cognizione del dolore impone costanza e competenza, determinazione e pazienza. Ma non solo.
Le esperienze tragiche che investono una comunità, oltre che portare all'affetto e alla solidarietà verso chi ha perso una persona cara e buona, dovrebbero portare allo scavo della coscienza da parte di ciascuno. Scavare nella coscienza significa, soprattutto, conoscere e, poi, praticare la "misura" nel vivere personale e collettivo. Lo si fa insegnando, imparando e, quindi, sapendo collettivamente che fuori da quella "misura", da quella "giustizia" a cui si deve concorrere, c'è solo la profondità dell'abisso, di ciò che pretendiamo di essere, ma non siamo.
Forse non si trova più la "giusta misura" perché non siamo più abituati a vedere quell'abisso, non ne si coglie più il pericolo. E cosi si rischia di esserne, tutti, inesorabilmente inghiottiti».