Non possiamo gettare a mare l’Italia unita

Intervista al prof. Giuseppe Poli dell’Università di Bari. Replica del docente alle accuse contro il movimento di unificazione nazionale

martedì 15 marzo 2011
Dopo le dure accuse lanciate dallo scrittore barlettano Francesco Del Vecchio sui discussi temi del Risorgimento italiano, Barlettalife ha deciso di proporre diritto di replica al prof. Giuseppe Poli, docente di Storia Moderna all'Università di Bari, già relatore sui temi dell'Unità d'Italia durante la contestata Conferenza celebrativa dei 150 anni alla Sala Consiliare del Teatro Curci lo scorso 4 marzo. Qui di seguito riportiamo l'intervista che il docente dell'ateneo barese ha gentilmente concesso alla nostra redazione.

Lei crede che in occasione della Conferenza celebrativa dello scorso 4 marzo a Barletta Le sia stata organizzata un'imboscata da parte dei contestatori? Ci risulta che non si sia trattato di un evento occasionale, crede ci sia un astio nei suoi confronti?
Non credo ci sia un astio nei miei confronti, penso che ci sia un'incomprensione per le cose che dico, una difficoltà nel voler valutare per buono ciò che asserisco. Sulla base di quali elementi essi mi contestano, non lo so. Le cose che affermo le fondo su elementi documentati – documenti, ricostruzioni storiche, statistiche, analisi complessive della realtà dell'epoca –, non so chi mi contesta su quali basi lo faccia, perché in realtà hanno opposto delle stime ridicole e in certi casi anche pretestuose, come ad esempio il milione di passeggeri sulla linea ferroviaria Napoli-Portici…

Cosa risponde a chi rivendica che le condizioni economiche e culturali del Sud Italia nel 1860 erano tutt'altro che misere e arretrate?
Rispondo che dovrebbero leggersi le statistiche che sono disponibili nei libri (anche coevi cioè dell'Ottocento, scritti da contemporanei), negli archivi e in tutte le fonti che consentono la ricostruzione del passato. Ripeto: ci sono testi non scritti oggi ma risalenti all'Ottocento. In quella serata (la già documentata conferenza celebrativa del 4 marzo scorso a Barletta, ndr), ad esempio, riportai dei testi e avevo delle fotocopie, come quelle tratte da un libro di Mauro Luigi Rotondo, "Saggio sulla popolazione e le pubbliche contribuzioni del Regno delle Due Sicilie" del 1834. Se i miei contestatori si recassero presso qualche biblioteca dove è conservato questo libro, tra cui la Biblioteca Nazionale di Bari, possono verificare che quanto io ho detto sull'ammontare della contribuzione è vero, perché nel Regno di Napoli si pagavano poche tasse. Ecco, poche tasse non sono sempre un sintomo di condizioni o di ripercussioni positive sulle condizioni della popolazione.

Però gli studi di Francesco Saverio Nitti, Sidney Sonnino, Giustino Fortunato, Antonio Gramsci, Leopoldo Franchetti, avevano già affermato che le condizioni economiche preunitarie del Regno delle Due Sicilie non erano così misere come descritte da altri. Lei ritiene che ci sia stata una volontà di non divulgare i risultati di quegli studi al grande pubblico o semplicemente sono prevalse altre interpretazioni storiografiche?

Non è che sono prevalse altre interpretazioni storiografiche. Una cosa è rivendicare la necessità di cambiamenti nel Sud, dicendo anche che queste condizioni potevano essere modificate in una certa maniera come suggerivano Sonnino, Fortunato – che tutti abbiamo letto, chi non ricorda lo "Sfasciume pendulo" con riferimento all'orografia di gran parte del territorio meridionale di cui parlava Giustino Fortunato, che era una condizione data dalla natura contro la quale il Sud doveva anche confrontarsi –, i quali, ripeto, non dicevano che il Sud stava meglio prima. Essi, semplicemente, auspicavano delle politiche diverse e più idonee alla condizioni del Mezzogiorno. Anche Gramsci cerca di difendere il brigantaggio, in un articolo pubblicato, mi sembra, sull'Ordine Nuovo, ma lo difendeva da una posizione diciamo "populistica" e sociale. Ma è chiaro che io posso anche difendere il ladro o il borseggiatore che ruba l'autoradio in macchina, perché non sa come sbarcare il lunario, però nel momento in cui commette quell'azione, pur avendo tutte le ragioni perché muore di fame o perché la società forse lo mette in quelle condizioni, egli si trova dalla parte del torto. Le condizioni dei briganti, che conducevano una vita grama, erano dovute al fatto che la proprietà era inegualmente distribuita ma questa ineguaglianza noi meridionali ce la trascinavamo da secoli e secoli. Però il fatto che quella realtà sopravvivesse ancora nell'Ottocento e fosse aggravata da altre variabili, come la crescita demografica, la nuova politica economica ecc. dava luogo ad un peggioramento delle condizioni di vita dei contadini che diventavano pressoché insopportabili. Bisognerebbe evitare le strumentalizzazioni. Il brigantaggio va spiegato: come mai il brigantaggio viene difeso dopo l'Unità e viene allora sostenuto dai Borbone? Perché i Borbone repressero, invece la banda di Annichiarico e quella di Vardarelli negli anni Venti e Trenta (del XIX secolo, ndr). I loro capi furono assoldati nell'esercito e poi condannati a morte.

E gli eccessi della Legge Pica?
Io non voglio difendere la Legge Pica, quelli furono eccessi verificatisi in situazioni di grande difficoltà, dall'una e dall'altra parte. Non voglio difendere né gli eccessi della Legge Pica, a distanza di centocinquanta anni, né voglio difendere gli eccessi del brigantaggio. È chiaro che in quel periodo ci furono forzature dall'una e dall'altra parte, furono spietati gli uni con gli altri. Poiché l'esercito italiano era meglio equipaggiato, chiaramente ebbe la meglio sul brigantaggio. Con questo non voglio per nulla difendere i delitti atroci commessi anche dal generale Cialdini, che in qualche occasione (a Casalduni come a Pontelandolfo e in qualche altra circostanza come sul Gargano con un altro ex garibaldino, come il nostro Liborio Romano, omonimo ma non parente del ministro degli Interni dell'epoca che era di Patù) è stato anche di mano pesante, però dopo centocinquanta anni noi non possiamo gettare a mare questa realizzazione dell'Italia unita, perché comunque ci presentiamo come italiani davanti al mondo, non possiamo proporci come napoletani o piemontesi o come padani o, ancora peggio, come meridionali del Regno borbonico come qualcuno va rivangando oggi, perché saremmo ridicoli.

Allora cosa risponde a chi interpreta il Risorgimento come una guerra coloniale barbarica e il movimento di unificazione nazionale un grande equivoco?

Rispondo che secondo me si sbagliano, perché purtroppo non si può gettare a mare il bambino con l'acqua sporca. In questi periodi, molto particolari della storia, accadono talvolta episodi non commendevoli. Il discorso si fa molto complesso e sarebbe necessario più tempo e più spazio per evidenziare tutte le sfumature che stanno dietro questi riferimenti. Le cose andarono così perché il clima di quell'epoca era particolarmente arroventato, ci dobbiamo calare in quel clima. Io non giustifico né Cialdini né tutti i generali che hanno passato per le armi senza processo i poveri briganti che si sono trovati di fronte. Ma la stessa cosa facevano anche i briganti nei loro confronti. Né la mia è una posizione pilatesca, purtroppo per comprendere quegli eventi bisognava vivere in quel periodo. Noi abbiamo già avuto la fortuna di non averle vissute, di vivere oggi sulle spalle di coloro che si sono immolati per costruire questa patria che oggi è l'Italia e che, senza retorica, dobbiamo cercare di tenere unita perché, ripeto, è utile anche tenerla così.

Un'ultima domanda: secondo Lei cosa ancora tiene assieme gli italiani?
Mah, anche questi centocinquanta anni di storia comune, anche la tradizione che va ancora più indietro nel tempo, il fatto che ci tramandiamo alcune forme di vita e di mentalità da molto tempo prima dell'Unità. Mi riferisco al «paese Italia» esistente in tante forme della vita quotidiana che qui è impossibile stare a raccontare. Anche un certo benessere che abbiamo raggiunto, che senza l'Unità forse non avremmo mai conquistato. Ecco tutti questi elementi hanno ormai cementato il popolo italiano in centocinquanta anni, credo che sia antistorico e assurdo volersi dividere o pensare, persino, di dividersi.

Pasquale Diroma