Le note del passato salvate dal maestro Francesco Lotoro
Il pianista barlettano racconta la sua “missione” a Barlettalife. «Questa musica non è mia, è patrimonio di tutti»
martedì 27 agosto 2013
La musica scatena l'animo e i ricordi, quando le note dimenticate di un'epoca passata attraversano il tempo e, nell'ultimo afflato di speranza, si posano nelle mani sicure di un "protettore". Il suo nome è Francesco Lotoro, pianista barlettano, impegnato da anni nella missione della sua vita, quella che lui definisce "mitzvah", termine ebraico che riassume il profondo precetto "Devi farlo, non importa con quale spirito, arriverà il momento in cui la passione prevarrà".
Mentre sono in corso gli eventi della seconda edizione di Lech Lechà, la settimana di arte, cultura e letteratura ebraica, vi proponiamo l'intervista al maestro barlettano, direttore artistico dell'evento, che ci ha raccontato la lunga storia della sua ricerca di musica concentrazionaria. «Non si tratta di musica scritta solo da ebrei – spiega il maestro Lotoro - ma anche da cristiani, rom, testimoni di Geova, dai soldati di qualsiasi fazione, anche tedeschi: la fenomenologia musicale concentrazionaria inizia nel '33, prima della guerra, con l'apertura del campo di Dachau, e arriva fino al '53 con la musica scritta dai tedeschi nei campi degli alleati. Non esiste una conoscenza completa di questi venti anni di musica».
«Un'importante testimonianza è costituita dal Fondo Boccosi. Berto Boccosi era un musicista che insieme ad altri italiani, dopo il fallimento della Campagna d'Africa, fu mandato prima nella Tunisia coloniale dove scrisse la "Rapsodia per pianoforte", poi in Algeria, in uno uadi, un'oasi che fu adibita a campo di concentramento. Dopo la guerra, l'autore soffrì di situazioni psicologiche molto fragili, per cui appose delle cancellature sui fogli delle sue composizioni, che qui nel mio studio ho raccolto e conservato. Morto nell'85, questo materiale mi è stato inviato dal figlio, Riccardo Boccosi: tutti questi fogli erano "parcheggiati" ad Ancona, in un solaio impraticabile, dove i suoi spartiti erano abbondonati e corrotti dal tempo e dalla polvere».
Adesso questo importante patrimonio è conservato nel suo studio. Qual è il miglior modo per salvaguardarlo?
«Naturalmente non può continuare ad essere conservato in questo modo. Ho lanciato nel corso degli anni diversi S.O.S., ma sono tutti andati a vuoto. E' stato utile sino ad ora per far scaturire una "corsa ai finanziamenti" che però non c'è stata. La Regione Puglia è l'unico ente pubblico che ha finanziato la pubblicazione del Thesaurus, e per questo ringrazio l'Assessorato al Mediterraneo, ma non è sufficiente per mandare avanti un'operazione di tale portata».
Non sono giunti aiuti neanche dal Comune di Barletta?
«Certamente questa iniziativa non è di respiro comunale, occorrerebbero enti di livello nazionale e sovranazionale. La differenza la fanno i giornalisti di testate internazionali, che possono scatenare un tam tam informativo di più ampia portata».
Dagli articoli pubblicati sulla stampa estera, molta attenzione le viene dedicata a livello internazionale, piuttosto che dal locale e dal nazionale…
«Prima di tutto c'è una forte risposta dal mondo ebraico: il 70% di questa musica è stata scritta da ebrei prigionieri nei campi di concentramento del Reich o di altri regimi oppressori. Esistono grandi campi anche in Giappone, paese che non firmò la Convenzione di Ginevra, per cui le condizioni di prigionia erano ancor più brutali, sia per i prigionieri, sia per i militari. Proprio in Giappone si ricorda un famoso campo, quello di Omori, un'isola artificiale di fronte a Pechino: anche lì i prigionieri, soprattutto britannici, si dedicarono alla composizione di musica. Tutto ciò dimostra che anche nelle situazioni più inaspettate, più paradossali, si crea sempre, spontaneamente, un'attività musicale basata sui pochi strumenti disponibili».
In quei luoghi è più difficile rinvenire spartiti e documentazione?
«No, anzi. La ricerca della musica scritta dagli americani, dai britannici e dai canadesi per il 50% è passata dai centri interforce della Pennsylvania, che hanno raccolto tutto il materiale disponibile in folders catalogati e microfilms. Poi ci sono i militari sopravvissuti che hanno conversato le proprie composizioni: loro stessi, dopo molti anni, si sono autoregistrati, facendo sì che le loro creazioni potessero sopravvivere. Questa musica veniva registrata su cassette dell'epoca, con una qualità non eccellente; occorre ricostruire la musica attraverso gli strumenti realmente documentati nell'epoca delle deportazioni, rimanendo il più fedelmente vicini all'idea originale. La vera ricerca sta nel ricostruire la partitura, partendo da questo canovaccio di informazioni».
Per salvare una di queste canzoni, che entità di finanziamento occorrerebbe?
«Ogni repertorio ha una sua storia. Nel computo finale occorre sommare anni di ricerca, con molti tentativi che spesso vanno a vuoto, nelle biblioteche comunali, attraverso lettere, fax, telefonate a parenti e conoscenti. Ovviamente è inquantificabile tutto ciò, non esiste un prezzo. Sono calcolabili più facilmente i costi di mantenimento, di composizione, di registrazione, composizione e pubblicazione, che di certo non possono essere sopportati da una persona sola».
C'è stato qualche privato che si è interessato a questa sua ricerca?
«Diverse possibilità ci sono, soprattutto dall'estero, ma non è così semplice. Ci sono state persone che mi hanno proposto di contribuire in maniera volontaria alla riscrittura delle partiture, perché il più grande problema è che la gran parte di questa musica non è immediatamente fruibile. Al momento solo il 10% di tutta la documentazione musicale è stata riscritta in digitale. Finora si è trattato di un lavoro ultradecennale, interamente a mie spese. Occorrerebbe un piano finanziario serio, che di questi tempi non è certo facile».
Nelle sue intenzioni, quale potrebbe essere il luogo deputato alla conservazione di questo patrimonio?
«Come volontà, sarebbe bello che la sede sia Barletta o Trani poiché, come ebreo, appartengo alla comunità di Trani. Riguardo Barletta, ho proposto come luogo il palazzo in cui è nato il direttore d'orchestra Carlo Maria Giulini. Però volere non basta. Non si tratta solo di un luogo, ma anche di una accurata organizzazione, sistemi di sicurezza, personale con un'adeguata preparazione».
Secondo lei, cosa è mancato: questione di mancanza di interesse o di fondi economici?
«Forse in molti non hanno compreso la portata di questa ricerca. Forse sono state fraintese le mie richieste di informazioni. Ci vorrebbe una piattaforma di ampio respiro, per dare vita definitivamente all'istituto di letteratura musicale concentrazionale. La questione è anche generazionale: molti dei sopravvissuti sono deceduti o sono molto anziani, perciò il loro ricordo dovrebbe continuare attraverso i figli e i nipoti, che certe volte neppure conoscono la storia dei loro nonni o genitori. La cronaca diventa storia, e la storia diventa esigenza della memoria: più passa il tempo, più questa sensazione diventa un'emergenza. Dal punto di vista musicale, in questo gioco cronologico abbiamo perso 70 anni di musica. Per una partitura salvata, altre tre sicuramente vengono perse».
Quale futuro prospetta per questa raccolta?
«Ciò che mi fa più piacere è che, nonostante i grandi problemi di natura economica, c'è una sensibilità oggi superiore a venti anni fa, quando ho cominciato la mia ricerca. Tra 50 anni questa musica sarà eseguita normalmente, proprio come Beethoven e Mozart: non è questa la generazione che si dedicherà a questo recupero storico, ma sono i giovani di oggi, gli adulti di domani, che potranno usufruire di questa musica. La musica non può restare chiusa in un magazzino, deve essere suonata ed ascoltata. 70 anni di oblio sono sufficienti: restituire vita a questa musica è come ridare la vita ai loro musicisti».
Mentre sono in corso gli eventi della seconda edizione di Lech Lechà, la settimana di arte, cultura e letteratura ebraica, vi proponiamo l'intervista al maestro barlettano, direttore artistico dell'evento, che ci ha raccontato la lunga storia della sua ricerca di musica concentrazionaria. «Non si tratta di musica scritta solo da ebrei – spiega il maestro Lotoro - ma anche da cristiani, rom, testimoni di Geova, dai soldati di qualsiasi fazione, anche tedeschi: la fenomenologia musicale concentrazionaria inizia nel '33, prima della guerra, con l'apertura del campo di Dachau, e arriva fino al '53 con la musica scritta dai tedeschi nei campi degli alleati. Non esiste una conoscenza completa di questi venti anni di musica».
«Un'importante testimonianza è costituita dal Fondo Boccosi. Berto Boccosi era un musicista che insieme ad altri italiani, dopo il fallimento della Campagna d'Africa, fu mandato prima nella Tunisia coloniale dove scrisse la "Rapsodia per pianoforte", poi in Algeria, in uno uadi, un'oasi che fu adibita a campo di concentramento. Dopo la guerra, l'autore soffrì di situazioni psicologiche molto fragili, per cui appose delle cancellature sui fogli delle sue composizioni, che qui nel mio studio ho raccolto e conservato. Morto nell'85, questo materiale mi è stato inviato dal figlio, Riccardo Boccosi: tutti questi fogli erano "parcheggiati" ad Ancona, in un solaio impraticabile, dove i suoi spartiti erano abbondonati e corrotti dal tempo e dalla polvere».
Adesso questo importante patrimonio è conservato nel suo studio. Qual è il miglior modo per salvaguardarlo?
«Naturalmente non può continuare ad essere conservato in questo modo. Ho lanciato nel corso degli anni diversi S.O.S., ma sono tutti andati a vuoto. E' stato utile sino ad ora per far scaturire una "corsa ai finanziamenti" che però non c'è stata. La Regione Puglia è l'unico ente pubblico che ha finanziato la pubblicazione del Thesaurus, e per questo ringrazio l'Assessorato al Mediterraneo, ma non è sufficiente per mandare avanti un'operazione di tale portata».
Non sono giunti aiuti neanche dal Comune di Barletta?
«Certamente questa iniziativa non è di respiro comunale, occorrerebbero enti di livello nazionale e sovranazionale. La differenza la fanno i giornalisti di testate internazionali, che possono scatenare un tam tam informativo di più ampia portata».
Dagli articoli pubblicati sulla stampa estera, molta attenzione le viene dedicata a livello internazionale, piuttosto che dal locale e dal nazionale…
«Prima di tutto c'è una forte risposta dal mondo ebraico: il 70% di questa musica è stata scritta da ebrei prigionieri nei campi di concentramento del Reich o di altri regimi oppressori. Esistono grandi campi anche in Giappone, paese che non firmò la Convenzione di Ginevra, per cui le condizioni di prigionia erano ancor più brutali, sia per i prigionieri, sia per i militari. Proprio in Giappone si ricorda un famoso campo, quello di Omori, un'isola artificiale di fronte a Pechino: anche lì i prigionieri, soprattutto britannici, si dedicarono alla composizione di musica. Tutto ciò dimostra che anche nelle situazioni più inaspettate, più paradossali, si crea sempre, spontaneamente, un'attività musicale basata sui pochi strumenti disponibili».
In quei luoghi è più difficile rinvenire spartiti e documentazione?
«No, anzi. La ricerca della musica scritta dagli americani, dai britannici e dai canadesi per il 50% è passata dai centri interforce della Pennsylvania, che hanno raccolto tutto il materiale disponibile in folders catalogati e microfilms. Poi ci sono i militari sopravvissuti che hanno conversato le proprie composizioni: loro stessi, dopo molti anni, si sono autoregistrati, facendo sì che le loro creazioni potessero sopravvivere. Questa musica veniva registrata su cassette dell'epoca, con una qualità non eccellente; occorre ricostruire la musica attraverso gli strumenti realmente documentati nell'epoca delle deportazioni, rimanendo il più fedelmente vicini all'idea originale. La vera ricerca sta nel ricostruire la partitura, partendo da questo canovaccio di informazioni».
Per salvare una di queste canzoni, che entità di finanziamento occorrerebbe?
«Ogni repertorio ha una sua storia. Nel computo finale occorre sommare anni di ricerca, con molti tentativi che spesso vanno a vuoto, nelle biblioteche comunali, attraverso lettere, fax, telefonate a parenti e conoscenti. Ovviamente è inquantificabile tutto ciò, non esiste un prezzo. Sono calcolabili più facilmente i costi di mantenimento, di composizione, di registrazione, composizione e pubblicazione, che di certo non possono essere sopportati da una persona sola».
C'è stato qualche privato che si è interessato a questa sua ricerca?
«Diverse possibilità ci sono, soprattutto dall'estero, ma non è così semplice. Ci sono state persone che mi hanno proposto di contribuire in maniera volontaria alla riscrittura delle partiture, perché il più grande problema è che la gran parte di questa musica non è immediatamente fruibile. Al momento solo il 10% di tutta la documentazione musicale è stata riscritta in digitale. Finora si è trattato di un lavoro ultradecennale, interamente a mie spese. Occorrerebbe un piano finanziario serio, che di questi tempi non è certo facile».
Nelle sue intenzioni, quale potrebbe essere il luogo deputato alla conservazione di questo patrimonio?
«Come volontà, sarebbe bello che la sede sia Barletta o Trani poiché, come ebreo, appartengo alla comunità di Trani. Riguardo Barletta, ho proposto come luogo il palazzo in cui è nato il direttore d'orchestra Carlo Maria Giulini. Però volere non basta. Non si tratta solo di un luogo, ma anche di una accurata organizzazione, sistemi di sicurezza, personale con un'adeguata preparazione».
Secondo lei, cosa è mancato: questione di mancanza di interesse o di fondi economici?
«Forse in molti non hanno compreso la portata di questa ricerca. Forse sono state fraintese le mie richieste di informazioni. Ci vorrebbe una piattaforma di ampio respiro, per dare vita definitivamente all'istituto di letteratura musicale concentrazionale. La questione è anche generazionale: molti dei sopravvissuti sono deceduti o sono molto anziani, perciò il loro ricordo dovrebbe continuare attraverso i figli e i nipoti, che certe volte neppure conoscono la storia dei loro nonni o genitori. La cronaca diventa storia, e la storia diventa esigenza della memoria: più passa il tempo, più questa sensazione diventa un'emergenza. Dal punto di vista musicale, in questo gioco cronologico abbiamo perso 70 anni di musica. Per una partitura salvata, altre tre sicuramente vengono perse».
Quale futuro prospetta per questa raccolta?
«Ciò che mi fa più piacere è che, nonostante i grandi problemi di natura economica, c'è una sensibilità oggi superiore a venti anni fa, quando ho cominciato la mia ricerca. Tra 50 anni questa musica sarà eseguita normalmente, proprio come Beethoven e Mozart: non è questa la generazione che si dedicherà a questo recupero storico, ma sono i giovani di oggi, gli adulti di domani, che potranno usufruire di questa musica. La musica non può restare chiusa in un magazzino, deve essere suonata ed ascoltata. 70 anni di oblio sono sufficienti: restituire vita a questa musica è come ridare la vita ai loro musicisti».