La Barletta colta da Pasolini ne "Il Vangelo secondo Matteo"
A cinquant’anni dal film, cosa resta della messa in scena del maestro?
giovedì 24 aprile 2014
0.07
Castel del Monte, Barletta e Gioia del Colle le città pugliesi in cui il set gitano de "Il Vangelo secondo Matteo" ha lasciato la sua orma, passando per Potenza, Matera, Barile e altri luoghi della Sicilia. Scelta geopolitica quella di Pier Paolo Pasolini di ambientare le vicende del Cristo rivoluzionario dell'evangelista Matteo nelle povere ricche lande del Sud Italia. Gli intenti pasoliniani hanno trovato nell'aria polverosa e nei muretti a secco delle campagne, ideali oggetti da camera con cui simulare il territorio palestinese. Infatti, le scene della predicazione sono state girate nella campagna fra Barletta e Taranto, il pretorio collocato a Castel del Monte, mentre la cacciata dal tempio e la reggia di Erode nel Castello di Gioia del Colle. In particolare, gli interni del Castello Svevo di Barletta configurano come i luoghi dell'ignavia di Pilato, della salvezza di Barabba e del Cristo beffato; dopo due ore di pellicola (2h, 3min) si può vedere la sala di uno dei quattro bastioni prese d'assalto dalle orde di comparse col ruolo del popolo giustiziere e la sala al primo piano dell'attuale biblioteca in cui i centurioni burlano Gesù, ormai condannato.
Le ragioni di Pasolini non sono mai state così irrazionali. Durante le riprese del film, cominciate in Puglia esattamente 50 anni fa - il 24 aprile del 1964 - lo spirito religioso dell'ateo regista fu la luce puntata sulle contraddizioni cristiane. La scelta ricadde sul Cristo di Matteo per il sensazionalismo comunista che lo caratterizzava: la moltiplicazione dei pani e dei pesci e la camminata sull'acqua erano le scene su cui Pasolini trasferiva la potente visione marxiana. La scelta dei paesaggi pugliesi fu motivata dalla volontà di raccontare l'ambiente del sottoproletariato. Tra lo slancio futurista dei borghesi e il pericolo del gigante industriale, Pasolini ritrovò nel Meridione ancora la stasi profonda su cui potersi concentrare per raccontare le contraddizioni antropologiche, la miseria divina e la meschinità umana.
Il gospel, Enrique Irazoqui (anarchico non solo di professione) e il Sud diventano così i contorni serviti insieme alla portata principale dell'élan vital pasoliniano. Un'ardente fiamma religiosa indipendente, che non si è mai fatta spegnere dai dirompenti fiumi ecclesiastici; piuttosto, uno spirito ateo che quanto più si avvicinava alle dottrine canonizzate tanto più ne disvelava i nei, mettendo in luce la purezza dell'occultato.
Un film, il Vangelo secondo Matteo, che sarà accompagnato più tardi dalla tanto criticata sceneggiatura "San Paolo" del 1968. Diabolica perseveranza? L'onda blasfema non è da cavalcare, ma il proposito critico è certo evidente. Per Pasolini una sceneggiatura è un testo a se stante, con un valore in sé, un'opera autonoma, anche se per essere una sceneggiatura deve accettare insieme l'allusione a un'opera cinematografica "da farsi". L'attualità di questi progetti fa sì che la conflazione del timore di Dio in oscura dissolutezza non vada persa. Questo "cinema di poesia" risponde all'esigenza di alterità provocata da un odierno asfittico, annodato su se stesso, incapace di futuro più di quanto già non fosse quello che Pasolini diceva "insostenibile". Il tentativo dialettico di queste sacre trasposizioni ha avuto un aspettato riscontro negativo, a conferma della paura dello stesso Pasolini: «La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter essere compresi».
Le ragioni di Pasolini non sono mai state così irrazionali. Durante le riprese del film, cominciate in Puglia esattamente 50 anni fa - il 24 aprile del 1964 - lo spirito religioso dell'ateo regista fu la luce puntata sulle contraddizioni cristiane. La scelta ricadde sul Cristo di Matteo per il sensazionalismo comunista che lo caratterizzava: la moltiplicazione dei pani e dei pesci e la camminata sull'acqua erano le scene su cui Pasolini trasferiva la potente visione marxiana. La scelta dei paesaggi pugliesi fu motivata dalla volontà di raccontare l'ambiente del sottoproletariato. Tra lo slancio futurista dei borghesi e il pericolo del gigante industriale, Pasolini ritrovò nel Meridione ancora la stasi profonda su cui potersi concentrare per raccontare le contraddizioni antropologiche, la miseria divina e la meschinità umana.
Il gospel, Enrique Irazoqui (anarchico non solo di professione) e il Sud diventano così i contorni serviti insieme alla portata principale dell'élan vital pasoliniano. Un'ardente fiamma religiosa indipendente, che non si è mai fatta spegnere dai dirompenti fiumi ecclesiastici; piuttosto, uno spirito ateo che quanto più si avvicinava alle dottrine canonizzate tanto più ne disvelava i nei, mettendo in luce la purezza dell'occultato.
Un film, il Vangelo secondo Matteo, che sarà accompagnato più tardi dalla tanto criticata sceneggiatura "San Paolo" del 1968. Diabolica perseveranza? L'onda blasfema non è da cavalcare, ma il proposito critico è certo evidente. Per Pasolini una sceneggiatura è un testo a se stante, con un valore in sé, un'opera autonoma, anche se per essere una sceneggiatura deve accettare insieme l'allusione a un'opera cinematografica "da farsi". L'attualità di questi progetti fa sì che la conflazione del timore di Dio in oscura dissolutezza non vada persa. Questo "cinema di poesia" risponde all'esigenza di alterità provocata da un odierno asfittico, annodato su se stesso, incapace di futuro più di quanto già non fosse quello che Pasolini diceva "insostenibile". Il tentativo dialettico di queste sacre trasposizioni ha avuto un aspettato riscontro negativo, a conferma della paura dello stesso Pasolini: «La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter essere compresi».