L’importanza di essere ascoltati e di sapersi ascoltare: riflessioni dopo la tragedia di Barletta

La città è rimasta sgomenta per la morte di una 13enne. Rispondono gli psicologi e le associazioni di volontariato

mercoledì 25 settembre 2024 16.12
A cura di Rosanna Luise
Gli ultimi bollettini epidemiologici nazionali curati dall'Istituto Superiore di Sanità attestano che il tasso di mortalità ha raggiunto recentemente la quota di 14,5 su 100.000 abitanti e questo significa che ogni minuto si suicidano più di due persone.

In Italia si registrano ogni anno circa 4000 morti per suicidio e queste ultime rappresentano una delle prime tre cause di morte tra gli adolescenti, senza tralasciare il tasso di persone che hanno tentato di togliersi la vita o che ha solo pensato almeno una volta di porre fine alla propria vita con il suicidio.

L'ultimo episodio di cronaca cittadina ci riporta alla vicenda di una giovane ragazza di Barletta che all'età di 13 anni ha deciso di togliersi la vita.

Per capire un po' meglio le varie dinamiche e cosa fare per aiutare chi sente di vivere in questo periodo buio, con tutta la premura e la delicatezza che situazioni di questo genere richiedono, abbiamo realizzato alcune interviste per condividere con la cittadinanza qualche spunto di riflessione, in questo momento di dolore e sconfitta per tutti.

Abbiamo intervistato Tommy Dibari, scrittore e psicologo, che è intervenuto sul tema in sostituzione del commissario dell'Ordine degli Psicologi.

Alla luce di quanto accaduto, quanto è importante il supporto psicologico e come può contribuire a salvare vite?
"Il modo o metodo che dir si voglia, muta a seconda dei diversi approcci terapeutici. Per quanto concerne l'utilità invece, direi vitale! Un bravo psicologo sa come farsi palombaro del cuore di chi ha di fronte, e risalire insieme la corrente per tornare a respirare, a vivere".

Come si manifesta il disagio o quali sono i sintomi più comuni?
"I segnali sono infiniti perché i ragazzi vivono flagellati dal dolore. Ma la domanda centrale è, e mi rivolgo soprattutto ai genitori, vogliamo capirli o sentirli? Perché capire è un verbo quasi algebrico, non passa dalle emozioni, sentire invece sì. Sentire infatti ci permette di costruire un tessuto connettivo con i nostri ragazzi e con noi stessi e tutto questo si chiama empatia".

Quali sono i consigli che sente di dare a chi sta accanto ad una persona che vuole compiere questa scelta?
"Sicuramente i consigli che mi sento di dare sono quelli di un ascolto attivo che sia autentico, empatico e privo di soluzioni prêt-à-porter. Inoltre ritengo che sia fondamentale far capire a chi vive il disagio l'importanza del rivolgersi quanto prima ad un professionista".

In merito al dialogo tra giovani e professionisti. Adesso c'è la possibilità di rivolgersi ad uno psicologo di base già partendo dalle scuole. Cosa ne pensa? Può bastare?
"È un lavoro orientativo preziosissimo, ma sottolineo, orientativo. Il percorso psicologico invece è disseppellire dal sottosuolo i demoni e farne virtù. Con questo intendo dire che il percorso terapeutico deve essere inteso come un percorso che aiuta a diventare genitori di sé stessi".

Accanto al parere degli psicologi abbiamo chiesto il parere di una della associazioni di volontariato, Univox Aps, che negli anni lottano contro questa tendenza e che svolge un ruolo di educazione e formazione sociale.

Quanto è importante che sul territorio ci siano associazioni che facciano informazione, svolgano un ruolo di supporto e che siano libere da ogni pregiudizio su questo tema?
"Penso che l'associazionismo e, in generale, il terzo settore stia pian piano assumendo un ruolo assolutamente centrale nella crescita non solo sociale, ma anche personale del singolo cittadino - spiega la presidente di Univox Aps, Serena De Sandi - Secondo me la chiave è una sensibilizzazione costante, curata e consapevole, ma soprattutto la promozione di ideali di uguaglianza e accoglienza".

Che ruolo svolge il benessere psico-fisico in tutto questo?
"La salute - ad oggi, soprattutto mentale e sociale, oltre che fisica - rappresenta un argomento essenziale ed è importante normalizzare che il malessere può colpire ogni fascia d'età e ogni genere, senza nessuna distinzione, ma soprattutto che chiedere aiuto costituisce una grande dichiarazione d'amore per sé e per chi ci circonda".

Sul tema è intervenuta anche Federica Papagni, psicologa psicoterapeuta specializzata in EMDR. La dottoressa ci aiuta a capire la genesi del fenomeno e le sue sfaccettature.

Dottoressa perché si arriva a questa decisione?
"Il pensiero suicidario è legato alla vita, non alla morte. Quando una persona arriva a contemplare questa idea, non lo fa perché vuole morire, ma perché desidera porre fine a una sofferenza grande e insostenibile. Il dolore psicologico che si sperimenta in questi momenti è grande e travolgente. Percepisce di non avere più speranze ed è incapace di immaginare un futuro alternativo; per questo motivo vengono vagliate tutte le opzioni possibili, compreso il suicidio. Difatti, all'inizio la persona è spaventata dai pensieri suicidari che sperimenta, non li accetta e cerca di allontanarsene. Cercherà quindi altre soluzioni, ma quando queste strategie non sembrano portare sollievo, l'idea del suicidio si fa strada come una "non-scelta", una sorta di fuga necessaria dal dolore".

Quali i segnali d'allarme?
"I segnali di allarme non sono universali e variano da persona a persona, ma ci sono alcuni punti che è bene tenere in considerazione quando parliamo di suicidio. Innanzitutto, dobbiamo sfatare i falsi miti, partendo dal famoso "chi lo dice non lo fa". I dati dimostrano che è l'esatto contrario: quando una persona dice apertamente di pensare al suicidio, sta, di fatto, chiedendo aiuto e potrebbe effettivamente mettere in atto l'ideazione suicidaria. Pertanto, occorre considerare seriamente le parole di coloro che esprimono il desiderio di morire, tenendo presente che è già una richiesta di aiuto".

Che altro ci può aiutare a capire?
"Si può poi osservare un cambiamento nella persona: ad esempio, una persona socievole può improvvisamente ritirarsi ed isolarsi, oppure qualcuno di calmo e riservato potrebbe agire in maniera impulsiva. Anche i cambiamenti d'umore sono significativi: assistiamo a volte a un improvviso senso di serenità e tranquillità in persone che sono state, fino a poco tempo prima, estremamente disperate. Non è detto che questo sia un segno di miglioramento dell'umore, ma potrebbe indicare che hanno preso una decisione, con il conseguente sentimento di pace che ne deriva. Ancora un altro segnale che mi sento di suggerire è che ci possono essere i preparativi per la propria morte, come redigere o aggiornare un testamento, scrivere una lettera o sistemare i beni più preziosi affidandoli a persone di fiducia; questi sono gesti di "chiusura". Va ricordato che questi sono solo alcuni dei segnali più importanti, ma ce ne possono essere molti di più".

Secondo lei che ruolo hanno gli psicologi in tutto questo?
"Il primo ruolo degli psicologi è sicuramente quello della prevenzione, partendo da un lavoro di sensibilizzazione fino ad arrivare all'intervento diretto nei momenti di crisi. Il loro compito principale è aiutare le persone a comprendere e gestire le emozioni, i pensieri e i comportamenti legati al suicidio. Gli psicologi hanno il compito fondamentale di valutare il rischio suicidario. Attraverso colloqui approfonditi e strumenti psicodiagnostici, possono individuare i segnali di allarme e i fattori di rischio specifici per ogni individuo. Questa valutazione permette di creare un piano di intervento personalizzato che tenga conto delle specifiche vulnerabilità della persona".

Quale il secondo step che li vede coinvolti?
"Vi è poi la fase in cui lo psicologo interviene: è innanzitutto importante fornire uno spazio sicuro dove la persona possa esprimere liberamente il proprio dolore, senza essere giudicata. In questa fase viene offerto sostegno immediato e si lavora per ridurre il rischio di comportamenti impulsivi. La connessione empatica e il supporto immediato sono cruciali per consentire alla persona di vedere che esistono alternative, anche quando queste sembrano impossibili da individuare. Una volta stabilizzata la situazione, si intraprende un lavoro più profondo per individuare le cause e costruire resilienza nel paziente, che potrà quindi beneficiare di una stabilizzazione nel lungo periodo. Infine, in alcuni casi, lo psicologo può decidere di coinvolgere le persone vicine al paziente, dopo aver valutato il rischio suicidario: in questo modo anche i familiari o gli amici possono riconoscere i segnali e intervenire, rinforzando la rete sociale e lavorando sinergicamente per il bene del paziente".

Cosa invece possono fare le persone che vi sono accanto?
"Innanzitutto, è fondamentale creare un dialogo e offrire uno spazio per parlare che sia esente da giudizi e svalutazioni. Per quanto possa spaventare e far male l'idea, svalutare l'ideazione suicidaria con frasi come "non dire queste sciocchezze" o "ma sì, vedrai che si risolve" non solo non è d'aiuto, ma contribuisce ad alimentare un profondo senso di solitudine e incomprensione. È importante parlare apertamente dell'argomento e domandare in modo esplicito: "Hai pensato al suicidio in questo periodo?" o "Hai pensato di voler morire?". Per quanto complesse, queste domande aprono uno spazio di confronto: l'altra persona può sentire sostegno e vicinanza e parlarne può lenire il dolore. Ricordiamo che chi pensa di togliersi la vita lo fa perché il dolore è diventato insostenibile; quindi, alleggerirlo, anche solo di poco, può essere fondamentale. Dopodiché, sarebbe opportuno che la persona consultasse un professionista della salute. Se non vuole recarsi da sola, ci si può proporre di accompagnarla. Se, invece, ci troviamo di fronte a una situazione di emergenza, dove la persona si sta già facendo del male o è sul punto di farlo, è necessario chiamare i servizi di emergenza o recarsi al pronto soccorso più vicino".