Gianluca Crudele e i luoghi della sua arte
Tra occidente e oriente, quando il viaggio contamina l'arte e la vita personale
venerdì 10 settembre 2021
Gianluca Crudele è un'artista, uno di quelli che nasce a Barletta, studia a Milano e finisce a Hong Kong. Come questi luoghi abbiano ispirato la sua arte è la vera storia di questo racconto.
Da piccolo, era uno di quelli che disegnava sui muri. Se intorno ai primi anni 2000 i graffiti che iniziavano a comparire a Barletta vi lasciavano quella strana sensazione tra l'essere interdetti e il meravigliati, sappiate che dietro quelle emozioni contrastanti o lo stupore che cresceva dentro per quest'arte nuova, c'era anche il suo zampino.
«Barletta intorno agli 90 - 2000 iniziò a essere famosa nel mondo dei graffiti che si stava pian piano diffondendo. Perché? Perché la nostra stazione era poco controllata la notte, quindi era davvero facilissimo dipingere i treni. C'erano delle crew, i 5SK di Trani soprattutto, che dipingevano scritte in stile newyorkese che vedevo sempre quando ero ragazzino. Erano scritte enigmatiche, che richiedevano una profonda dedizione da parte dell'osservatore per riuscire a decifrarle. Ho cominciato a dipingere sul muro emulando queste scritte e anche successivamente, quando la mia produzione si è mossa in una direzione più personale, quelle cose mi sono rimaste dentro. L'adrenalina che deriva dal dipingere spesso illegalmente e soprattutto l'idea di un codice da decifrare.
Anche oggi, quando dipingo su tela, cerco di creare una mia grammatica visiva, fatta di simboli e precise scelte stilistiche. Poi credo che dipingere una parete sia una sensazione che ti rimane addosso perché è un'azione fisica, c'è una superficie che puoi toccare, che ti sovrasta e tu devi darle un significato e una forma. Un'altra cosa che mi affascina è l'aspetto esperienziale: per fare arte sui muri è importante osservare il contesto e quindi, il meteo. Anche le caratteristiche stesse che lo compongono: una finestra, un tubo, una particolarità possono essere parte dell'opera.
Il muro ha dei limiti e soprattutto ha un suo pubblico di cui bisogna tener conto in qualche modo. Detto ciò, trovo anche aberranti quei lavori che insultano l'osservatore con la loro scontatezza estrema, diciamo post Banksy, che si vedono sempre più per strada. Un'opera deve essere sempre e comunque una sfida per chi la guarda offrendo più livelli di lettura.
Il germe dei graffiti me lo sono portato dentro anche quando mi sono trasferito ad Hong Kong (fine 2013), così ho cominciato a esplorare la città alla ricerca di luoghi abbandonati dove dipingere; qui ritorna l'arte come esperienza, anche intesa come viaggio vero e proprio perché spesso a essere abbandonati sono villaggi sperduti che richiedono ore di cammino nella foresta/giungla - che copre la maggior parte di Hong Kong - solo per arrivare al muro. Sono luoghi estremamente affascinanti perché carichi delle storie di coloro che vi vivevano. Quando ritrovavo vecchie fotografie, scritte, sapevo che quelle erano le tracce di una vita passata che mi stava parlando e che volevo ascoltare. Alle volte andava a finire che neanche dipingevo se avvertivo una sorta di sacralità nell'ambiente. In questi luoghi c'è un fascino nostalgico, che non ritrovo nel gigantismo della città perché c'è tanto rumore, tanto frastuono generale. Il sentimento della nostalgia effettivamente è un fil rouge della mia arte, lo ritengo un modo di vivere il passato nel presente. Forse perché ho deciso di vivere tanto lontano da casa.
Da anni poi ho cominciato a dipingere un po' più seriamente anche in studio e ho da poco chiuso una mostra ad Hong Kong intitolata Zhi il brigante. I casi della vita hanno voluto che mentre ad Hong Kong infuriavano le proteste anti-cinesi del 2019 – che poi hanno portato alla oppressiva legge sulla sicurezza nazionale del 2020 – io leggevo il Zhuangzhi che è un testo taoista di 2500 anni fa, ma pareva fosse stato scritto il giorno prima per l'attualità dei concetti (libertà individuale, anti-moralismo, natura innata delle cose). Il capitolo su Zhi il brigante era uno dei più calzanti e ho deciso di dipingerci una serie. Se dovessi scegliere l'opera più riuscita direi Zhi il brigante preferisce mangiare mandarini piuttosto che starli a sentire. Volevo creare un contrasto tra l'aria contemplativa dell'immagine, sia per composizione che per colori, e il titolo che tradisce lo spirito ribelle del soggetto - omaggio allo stile di scrittura tagliente e ironico del testo originale. I mandarini erano i burocrati dell'impero cinese e furono chiamati così dai portoghesi, ne deriva il nome dal verbo "mandar" (comandare); quando poi cominciarono a importare piccole arance dalla Cina le chiamarono "arance mandarine".
A me fanno impazzire queste piccole digressioni e quando riesco mi piace inserirle nei miei lavori. Cerco di legare il passato al presente attraverso più livelli di lettura, specie attraverso citazioni anche letterarie. Dalla mitologia greca, a quella cinese, all'alchimia di Schwartz, poi Nietzsche e De Chirico. Detta così sembra una cosa esagerata e pretenziosa, in realtà queste cose io mi sono limitato a leggerle. Non mi interessa studiarle in senso academico nè capirle nella loro interezza. Anzi, le loro metafore misteriose ed enigmatiche sono quelle che trovo più "utili" per la mia produzione. È un processo di contaminazione non solo culturale, ma anche temporale che si lega alla mia storia personale fino a toccare le piccole cose della quotidianità.
A chi queste cose le ha odiate a scuola consiglio di provare a leggerle. Senza aspettative, anche segretamente e con tempi lunghi, ma senza parafrasi o la pretesa di conoscere già i concetti centrali. La forma è contenuto, e anche i dettagli apparentemente più inutili possono rivelare cose inaspettate».
L'arte di Gianluca oltre essere una commistione tra mondi è anche unione tra la cultura occidentale e quella orientale che non si ferma a questa bipartizione. Rimarrà in Puglia ancora per un po' e ha deciso di lasciarsi ispirare dalle radici della sua terra e di esplorare l'arte bizantina. C'è un'attenzione per i luoghi che comunicano e diventano arte.
Da piccolo, era uno di quelli che disegnava sui muri. Se intorno ai primi anni 2000 i graffiti che iniziavano a comparire a Barletta vi lasciavano quella strana sensazione tra l'essere interdetti e il meravigliati, sappiate che dietro quelle emozioni contrastanti o lo stupore che cresceva dentro per quest'arte nuova, c'era anche il suo zampino.
«Barletta intorno agli 90 - 2000 iniziò a essere famosa nel mondo dei graffiti che si stava pian piano diffondendo. Perché? Perché la nostra stazione era poco controllata la notte, quindi era davvero facilissimo dipingere i treni. C'erano delle crew, i 5SK di Trani soprattutto, che dipingevano scritte in stile newyorkese che vedevo sempre quando ero ragazzino. Erano scritte enigmatiche, che richiedevano una profonda dedizione da parte dell'osservatore per riuscire a decifrarle. Ho cominciato a dipingere sul muro emulando queste scritte e anche successivamente, quando la mia produzione si è mossa in una direzione più personale, quelle cose mi sono rimaste dentro. L'adrenalina che deriva dal dipingere spesso illegalmente e soprattutto l'idea di un codice da decifrare.
Anche oggi, quando dipingo su tela, cerco di creare una mia grammatica visiva, fatta di simboli e precise scelte stilistiche. Poi credo che dipingere una parete sia una sensazione che ti rimane addosso perché è un'azione fisica, c'è una superficie che puoi toccare, che ti sovrasta e tu devi darle un significato e una forma. Un'altra cosa che mi affascina è l'aspetto esperienziale: per fare arte sui muri è importante osservare il contesto e quindi, il meteo. Anche le caratteristiche stesse che lo compongono: una finestra, un tubo, una particolarità possono essere parte dell'opera.
Il muro ha dei limiti e soprattutto ha un suo pubblico di cui bisogna tener conto in qualche modo. Detto ciò, trovo anche aberranti quei lavori che insultano l'osservatore con la loro scontatezza estrema, diciamo post Banksy, che si vedono sempre più per strada. Un'opera deve essere sempre e comunque una sfida per chi la guarda offrendo più livelli di lettura.
Il germe dei graffiti me lo sono portato dentro anche quando mi sono trasferito ad Hong Kong (fine 2013), così ho cominciato a esplorare la città alla ricerca di luoghi abbandonati dove dipingere; qui ritorna l'arte come esperienza, anche intesa come viaggio vero e proprio perché spesso a essere abbandonati sono villaggi sperduti che richiedono ore di cammino nella foresta/giungla - che copre la maggior parte di Hong Kong - solo per arrivare al muro. Sono luoghi estremamente affascinanti perché carichi delle storie di coloro che vi vivevano. Quando ritrovavo vecchie fotografie, scritte, sapevo che quelle erano le tracce di una vita passata che mi stava parlando e che volevo ascoltare. Alle volte andava a finire che neanche dipingevo se avvertivo una sorta di sacralità nell'ambiente. In questi luoghi c'è un fascino nostalgico, che non ritrovo nel gigantismo della città perché c'è tanto rumore, tanto frastuono generale. Il sentimento della nostalgia effettivamente è un fil rouge della mia arte, lo ritengo un modo di vivere il passato nel presente. Forse perché ho deciso di vivere tanto lontano da casa.
Da anni poi ho cominciato a dipingere un po' più seriamente anche in studio e ho da poco chiuso una mostra ad Hong Kong intitolata Zhi il brigante. I casi della vita hanno voluto che mentre ad Hong Kong infuriavano le proteste anti-cinesi del 2019 – che poi hanno portato alla oppressiva legge sulla sicurezza nazionale del 2020 – io leggevo il Zhuangzhi che è un testo taoista di 2500 anni fa, ma pareva fosse stato scritto il giorno prima per l'attualità dei concetti (libertà individuale, anti-moralismo, natura innata delle cose). Il capitolo su Zhi il brigante era uno dei più calzanti e ho deciso di dipingerci una serie. Se dovessi scegliere l'opera più riuscita direi Zhi il brigante preferisce mangiare mandarini piuttosto che starli a sentire. Volevo creare un contrasto tra l'aria contemplativa dell'immagine, sia per composizione che per colori, e il titolo che tradisce lo spirito ribelle del soggetto - omaggio allo stile di scrittura tagliente e ironico del testo originale. I mandarini erano i burocrati dell'impero cinese e furono chiamati così dai portoghesi, ne deriva il nome dal verbo "mandar" (comandare); quando poi cominciarono a importare piccole arance dalla Cina le chiamarono "arance mandarine".
A me fanno impazzire queste piccole digressioni e quando riesco mi piace inserirle nei miei lavori. Cerco di legare il passato al presente attraverso più livelli di lettura, specie attraverso citazioni anche letterarie. Dalla mitologia greca, a quella cinese, all'alchimia di Schwartz, poi Nietzsche e De Chirico. Detta così sembra una cosa esagerata e pretenziosa, in realtà queste cose io mi sono limitato a leggerle. Non mi interessa studiarle in senso academico nè capirle nella loro interezza. Anzi, le loro metafore misteriose ed enigmatiche sono quelle che trovo più "utili" per la mia produzione. È un processo di contaminazione non solo culturale, ma anche temporale che si lega alla mia storia personale fino a toccare le piccole cose della quotidianità.
A chi queste cose le ha odiate a scuola consiglio di provare a leggerle. Senza aspettative, anche segretamente e con tempi lunghi, ma senza parafrasi o la pretesa di conoscere già i concetti centrali. La forma è contenuto, e anche i dettagli apparentemente più inutili possono rivelare cose inaspettate».
L'arte di Gianluca oltre essere una commistione tra mondi è anche unione tra la cultura occidentale e quella orientale che non si ferma a questa bipartizione. Rimarrà in Puglia ancora per un po' e ha deciso di lasciarsi ispirare dalle radici della sua terra e di esplorare l'arte bizantina. C'è un'attenzione per i luoghi che comunicano e diventano arte.