Don Vito Carpentiere, un sacerdote barlettano sulle orme di padre Dibari
«In Uganda siamo stati festeggiati, abbiamo inaugurato una nursery school»
domenica 17 novembre 2013
Barletta e l'Uganda sembrano lontane. Sulla carta, volendo percorrerla in macchina, dovremmo macinare quasi 8600 chilometri, attraversando sei stati e due continenti. Ma Barletta e l'Uganda sono vicine nel nome e nel ricordo di padre Raffaele Dibari, sacerdote barlettano ucciso nel 2000 a Pajule dai guerriglieri dell'LRA. In onore del "loribamoi" (questo il soprannome con cui viene ricordato il sacerdote), una delegazione della diocesi di Barletta-Bisceglie-Trani ha inaugurato in Uganda una nursery school, che accoglierà 600 bambini strappandoli alla vita militare. Di ritorno dall'Uganda, abbiamo raccolto l'esperienza di don Vito Carpentiere, che sulle orme di padre Raffaele ha vissuto questa esperienza per certi versi toccante, per altri tragica.
Don Vito Carpentiere, sei reduce da questa esperienza in Uganda molto toccante. Avete inaugurato questa scuola per bambini ugandesi. Un gesto doveroso per ricordare una figura importante come don Raffaele Dibari.
«Mi confesso: per me la missione non è in qualsiasi posto. Era il 1979, facevo la quarta elementare alla Musti, e a scuola venne un missionario comboniano, padre Pinuccio Floris, che ci parlò della situazione missionaria e dell'Uganda. Dall'epoca è come se avesse gettato un piccolissimo seme. Dopo 34 anni, don Rino Caporusso mi chiede di far parte della delegazione per andare in Uganda. L'occasione è stata generata dalla benedizione di questa scuola che alcuni imprenditori barlettani hanno regalato alla comunità di Awach, in una delle parrocchie in cui don Raffaele è stato parroco. Abbiamo fatto l'inaugurazione di domenica, il 6 ottobre, in onore di padre Raffaele. Ci hanno accolti in migliaia, erano presenti dal mattino a festeggiarci. Questa struttura sarà molto importante per la comunità: è una nursery school dove troveranno occasione di crescere circa 600 bambini. In Uganda, il 70% della popolazione è al di sotto dei 17 anni, la guerra civile è terminata solo nel 2006. Ci sono tante situazioni di necessità e di bisogno. Abbiamo ricevuto una grande testimonianza su padre Raffaele Dibari».
La figura di don Raffaele Dibari è stata fondamentale per l'Uganda. È proprio il bambino il simbolo del futuro in Uganda, ed è bello che la Chiesa abbia intrapreso la stessa strada solcata da don Raffaele con la presenza di una delegazione. Sembrerebbe difficile parlare di religione in una nazione dilaniata dalla guerra.
«Lì abbiamo fatto l'esperienza di una chiesa giovane, gioiosa e fiduciosa nel futuro. Quando padre Raffaele è arrivato in Uganda ormai 50 anni fa con padre John, ha impiantato il mulino per il granturco. Padre John, figlio di meccanici del nord Italia, costruisce questo mulino, ma è padre Raffaele a pagare questa opera. Fatto il primo mulino, hanno subito responsabilizzato la gente, che donava una parte di granturco alla chiesa per sfamare anche i più poveri. Padre Raffaele e padre John hanno piantato il riso e il girasole in Uganda: altro che evangelizzazione, hanno fatto anche promozione umana. Dopo tanti anni, nel nome di padre Raffaele, l'attenzione resta ancora sui bambini. Abbiamo fatto riferimento al fenomeno dei bambini-soldato. Lo stesso termine è stato coniato da padre Raffaele, quando all'agenzia di comunicazione Misna denunciò questo fenomeno poco prima di essere ucciso. È allucinante pensare che bambini dai 5 anni in su vengano rapiti per fare i soldati. Se avevano fratellini, i militari dicevano ai bambini di uccidere i fratelli per incattivirli. Venivano anche drogati e malmenati, fin quando non diventavano veri e propri soldati. Padre Raffaele, dopo aver denunciato questo fenomeno, con tutti i mezzi possibili ed immaginabili comprava i bambini e li educava, ma non riusciva ad educare i villaggi dove avevano visto morire i loro i genitori anche a colpi di machete. Questo è il motivo per cui padre Raffaele è stato ucciso, sicuramente dalla LRA, ma con l'appoggio della polizia ugandese, che si trovava a 5 minuti di strada ed è arrivata dopo due ore. Abbiamo incontrato 4 sopravvissuti all'eccidio di don Raffaele, e i loro racconti sono quelli meno agghiaccianti, meno allucinanti. In Uganda venerano padre Raffaele come un Santo, come un martire».
Quello che mi ha colpito nel guardare le foto che hai pubblicato è il sorriso di questi bambini: dopo tutto quello che gli ugandesi hanno passato, è straordinario vedere ancora la speranza nei loro occhi. Questi sorrisi in Italia non si vedono, dovrebbero essere d'esempio per tanti.
«Se questi sorrisi sono stati contagiosi solo tramite una foto, puoi solo immaginare come stavamo noi, molto emozionati. Non appena ci vedevano, questi bambini ci correvano incontro, si inginocchiavano e cominciavano ad accarezzarci. Sono stati molto affettuosi, ci hanno coccolato e festeggiato soprattutto quando portavamo le caramelle, che da noi sono nulla. Ho fatto tante foto con l'autoscatto: loro si vedevano nello schermo e ridevano. Vedere la partecipazione di tutta questa folla di bambini è stato toccante. Abbiamo incontrato migliaia di bambini, ma non conosciamo il pianto di un bambino africano. Dovunque siamo andati, eravamo circondati da sorrisi. Per qualche bambino, frequentare la scuola significa anche fare 20 chilometri a piedi, ma si impegnavano senza battere ciglio. Notevole è anche l'impegno dei missionari, che hanno lavorato su 3 fronti: evangelizzazione, istruzione e sanità».
La situazione in Uganda è tragica, ma padre Raffaele è stato precursore dei tempi, e ha dato modo anche all'Italia di sensibilizzarsi sulle tragedie africane. Come si sta muovendo la Chiesa nei confronti di padre Raffaele?
«Il viaggio è stato molto proficuo, e lo stesso vescovo Picchierri si è fatto prima coinvolgere, poi travolgere da questa esperienza. Il vescovo ha chiesto ufficialmente alla diocesi del luogo di intraprendere il discorso di un processo di beatificazione per martirio. Inoltre, formalmente il vescovo ha chiesto al vescovo della diocesi ugandese di poter mandare sacerdoti della nostra diocesi in missione, magari proprio in una delle parrocchie dove è stato parroco don Raffaele. Così il ricordo di un morto diventa vivo. Padre Raffaele è sepolto vicino alla chiesa, e la sua tomba è meta di un continuo pellegrinaggio, ed è un luogo di festa, di incontro. Abbiamo già raccolto tante testimonianze di sopravvissuti, missionari e catechisti. Uno di questi catechisti, il papà di padre Leonzio, ha creato per don Raffaele un soprannome che in ugandese significa "colui che crea comunione in maniera esagerata", loribamoi».
Nel ritorno a Barletta, qual è l'insegnamento che la comunità barlettana può trarre da questa tua esperienza in Uganda?
«Premetto che in questo momento a Barletta mi sento in ferie, perché il cuore e la testa sono ancora in Uganda (ride ndr). Quando al mio ritorno ho parlato durante la messa dei bambini è stato bellissimo. Non possiamo chiedere a tutti i diventare missionari, ci mancherebbe. Ma tornare qui ci fa capire alcune differenze che ci sono. Il popolo africano possiede grande pazienza, grande calma, mentre noi per un nonnulla ci inalberiamo. Inoltre, il popolo ugandese non conosce la depressione, perché per loro ogni giornata è condivisione, alla tavola del più povero mangiano tutti i più poveri. L'augurio che mi rivolgo è di poterci tornare quanto prima, magari anche con una tempistica più ampia, perché voglio vivere l'esperienza della comunità ugandese».
Don Vito Carpentiere, sei reduce da questa esperienza in Uganda molto toccante. Avete inaugurato questa scuola per bambini ugandesi. Un gesto doveroso per ricordare una figura importante come don Raffaele Dibari.
«Mi confesso: per me la missione non è in qualsiasi posto. Era il 1979, facevo la quarta elementare alla Musti, e a scuola venne un missionario comboniano, padre Pinuccio Floris, che ci parlò della situazione missionaria e dell'Uganda. Dall'epoca è come se avesse gettato un piccolissimo seme. Dopo 34 anni, don Rino Caporusso mi chiede di far parte della delegazione per andare in Uganda. L'occasione è stata generata dalla benedizione di questa scuola che alcuni imprenditori barlettani hanno regalato alla comunità di Awach, in una delle parrocchie in cui don Raffaele è stato parroco. Abbiamo fatto l'inaugurazione di domenica, il 6 ottobre, in onore di padre Raffaele. Ci hanno accolti in migliaia, erano presenti dal mattino a festeggiarci. Questa struttura sarà molto importante per la comunità: è una nursery school dove troveranno occasione di crescere circa 600 bambini. In Uganda, il 70% della popolazione è al di sotto dei 17 anni, la guerra civile è terminata solo nel 2006. Ci sono tante situazioni di necessità e di bisogno. Abbiamo ricevuto una grande testimonianza su padre Raffaele Dibari».
La figura di don Raffaele Dibari è stata fondamentale per l'Uganda. È proprio il bambino il simbolo del futuro in Uganda, ed è bello che la Chiesa abbia intrapreso la stessa strada solcata da don Raffaele con la presenza di una delegazione. Sembrerebbe difficile parlare di religione in una nazione dilaniata dalla guerra.
«Lì abbiamo fatto l'esperienza di una chiesa giovane, gioiosa e fiduciosa nel futuro. Quando padre Raffaele è arrivato in Uganda ormai 50 anni fa con padre John, ha impiantato il mulino per il granturco. Padre John, figlio di meccanici del nord Italia, costruisce questo mulino, ma è padre Raffaele a pagare questa opera. Fatto il primo mulino, hanno subito responsabilizzato la gente, che donava una parte di granturco alla chiesa per sfamare anche i più poveri. Padre Raffaele e padre John hanno piantato il riso e il girasole in Uganda: altro che evangelizzazione, hanno fatto anche promozione umana. Dopo tanti anni, nel nome di padre Raffaele, l'attenzione resta ancora sui bambini. Abbiamo fatto riferimento al fenomeno dei bambini-soldato. Lo stesso termine è stato coniato da padre Raffaele, quando all'agenzia di comunicazione Misna denunciò questo fenomeno poco prima di essere ucciso. È allucinante pensare che bambini dai 5 anni in su vengano rapiti per fare i soldati. Se avevano fratellini, i militari dicevano ai bambini di uccidere i fratelli per incattivirli. Venivano anche drogati e malmenati, fin quando non diventavano veri e propri soldati. Padre Raffaele, dopo aver denunciato questo fenomeno, con tutti i mezzi possibili ed immaginabili comprava i bambini e li educava, ma non riusciva ad educare i villaggi dove avevano visto morire i loro i genitori anche a colpi di machete. Questo è il motivo per cui padre Raffaele è stato ucciso, sicuramente dalla LRA, ma con l'appoggio della polizia ugandese, che si trovava a 5 minuti di strada ed è arrivata dopo due ore. Abbiamo incontrato 4 sopravvissuti all'eccidio di don Raffaele, e i loro racconti sono quelli meno agghiaccianti, meno allucinanti. In Uganda venerano padre Raffaele come un Santo, come un martire».
Quello che mi ha colpito nel guardare le foto che hai pubblicato è il sorriso di questi bambini: dopo tutto quello che gli ugandesi hanno passato, è straordinario vedere ancora la speranza nei loro occhi. Questi sorrisi in Italia non si vedono, dovrebbero essere d'esempio per tanti.
«Se questi sorrisi sono stati contagiosi solo tramite una foto, puoi solo immaginare come stavamo noi, molto emozionati. Non appena ci vedevano, questi bambini ci correvano incontro, si inginocchiavano e cominciavano ad accarezzarci. Sono stati molto affettuosi, ci hanno coccolato e festeggiato soprattutto quando portavamo le caramelle, che da noi sono nulla. Ho fatto tante foto con l'autoscatto: loro si vedevano nello schermo e ridevano. Vedere la partecipazione di tutta questa folla di bambini è stato toccante. Abbiamo incontrato migliaia di bambini, ma non conosciamo il pianto di un bambino africano. Dovunque siamo andati, eravamo circondati da sorrisi. Per qualche bambino, frequentare la scuola significa anche fare 20 chilometri a piedi, ma si impegnavano senza battere ciglio. Notevole è anche l'impegno dei missionari, che hanno lavorato su 3 fronti: evangelizzazione, istruzione e sanità».
La situazione in Uganda è tragica, ma padre Raffaele è stato precursore dei tempi, e ha dato modo anche all'Italia di sensibilizzarsi sulle tragedie africane. Come si sta muovendo la Chiesa nei confronti di padre Raffaele?
«Il viaggio è stato molto proficuo, e lo stesso vescovo Picchierri si è fatto prima coinvolgere, poi travolgere da questa esperienza. Il vescovo ha chiesto ufficialmente alla diocesi del luogo di intraprendere il discorso di un processo di beatificazione per martirio. Inoltre, formalmente il vescovo ha chiesto al vescovo della diocesi ugandese di poter mandare sacerdoti della nostra diocesi in missione, magari proprio in una delle parrocchie dove è stato parroco don Raffaele. Così il ricordo di un morto diventa vivo. Padre Raffaele è sepolto vicino alla chiesa, e la sua tomba è meta di un continuo pellegrinaggio, ed è un luogo di festa, di incontro. Abbiamo già raccolto tante testimonianze di sopravvissuti, missionari e catechisti. Uno di questi catechisti, il papà di padre Leonzio, ha creato per don Raffaele un soprannome che in ugandese significa "colui che crea comunione in maniera esagerata", loribamoi».
Nel ritorno a Barletta, qual è l'insegnamento che la comunità barlettana può trarre da questa tua esperienza in Uganda?
«Premetto che in questo momento a Barletta mi sento in ferie, perché il cuore e la testa sono ancora in Uganda (ride ndr). Quando al mio ritorno ho parlato durante la messa dei bambini è stato bellissimo. Non possiamo chiedere a tutti i diventare missionari, ci mancherebbe. Ma tornare qui ci fa capire alcune differenze che ci sono. Il popolo africano possiede grande pazienza, grande calma, mentre noi per un nonnulla ci inalberiamo. Inoltre, il popolo ugandese non conosce la depressione, perché per loro ogni giornata è condivisione, alla tavola del più povero mangiano tutti i più poveri. L'augurio che mi rivolgo è di poterci tornare quanto prima, magari anche con una tempistica più ampia, perché voglio vivere l'esperienza della comunità ugandese».