Don Vito Carpentiere: «Ho detto si all’Africa, Dio mi ha sorpreso»

Il sacerdote barlettano sarà fidei donum in Uganda

lunedì 30 giugno 2014 3.44
A cura di Enrico Gorgoglione
L'Africa chiama, don Vito risponde con entusiasmo. È di pochi giorni fa la notizia dell'imminente partenza del parroco della chiesa di San Nicola alla volta dell'Uganda. Il sacerdote barlettano ha infatti accettato l'avventura che lo porterà a guidare la comunità ugandese di Pajule, la stessa che ha visto operare padre Raffaele Dibari. Con don Vito, volerà in Uganda anche don Domenico Savio Pierro, per un'esperienza di fede, per una nuova esperienza nel nome del Cristo. Tra aneddoti e particolari, don Vito racconta ai microfoni di Barlettaviva le motivazioni che l'hanno spinto ad accettare la proposta che l'arcivescovo Picchierri gli aveva fatto al termine del suo primo viaggio in Uganda. Non certo una scelta facile per chi ha sempre vissuto la realtà barlettana, ma all'iniziale scetticismo è subentrato una convinzione sempre crescente. Don Vito e don Domenico Savio rappresenteranno la diocesi di Trani-Barletta-Bisceglie in Uganda, continuando così il rapporto di stretta collaborazione con la Chiesa di Pajule.

Don Vito, qual è lo stato d'animo che stai provando in questo momento? Molti concittadini, tuoi parrocchiani e non, sono rimasti davvero sorpresi da questo annuncio della tua imminente partenza per l'Uganda.
«Se la poniamo in termini vocazionali come io la sto ponendo dal primo momento, ti posso assicurare che il primo sorpreso sono io stesso. Un'espressione che mi sta accompagnando in questi ultimi giorni è: Dio ci sorprende sempre. È una cosa che ho sempre detto alle altre persone, specialmente in alcuni momenti di difficoltà o di novità nella loro vita. In questo momento Dio ha sorpreso me. Un anno fa, a chiunque mi avesse chiesto "ma tu lasci San Nicola? Vai da qualche altra parte?" avrei risposto con un secco "no". Tanto meno avrei pensato all'idea dell'Uganda, che invece poi è venuta fuori in maniera preponderante».

Oltre ai tuoi trascorsi e ad episodi della tua vita personale, quanto ti ha aiutato il tuo precedente viaggio in Uganda nel prendere questa decisione?
«Il viaggio in Uganda ha fatto emergere tutto quello che c'era di sommerso nella mia vita. Già nella mia precedente intervista facevo riferimento a questo mio primo incontro non con la realtà della missione, né con la realtà dell'Africa, ma con la realtà dell'Uganda. Ero alle elementari quando padre Floris venne alla scuola Musti, e lì ho cominciato a capire quali problemi avesse quella terra. Poi ricordo i miei primi anni di sacerdozio. All'epoca don Rino Caporusso era partito come fidei donum in Brasile. Dietro i suoi numerosi inviti a raggiungerlo, gli avevo sempre detto "ma io se vengo in Brasile non faccio il biglietto di ritorno". Poi tanti altri piccoli semi disseminati nel corso della mia vita e della mia storia personale, come qualcosa che non ti vuoi ammettere e che poi, invece, emerge. E se è emerso, è stato proprio alla fine di quel viaggio in Uganda. La sera prima di prendere l'aereo per tornare a casa, nel momento della verifica, l'arcivescovo mi ha esplicitato il suo pensiero: per un discorso di cooperazione tra la nostra diocesi e la chiesa d'Uganda nella diocesi di Gulu, vedeva bene l'invio di due sacerdoti, uno più maturo, e questo sarei io, e uno più giovane. Al termine di questa proposta, la mia risposta è stata un altro secco "no". Ma, al ritorno, questo no è scomparso dopo due settimane, lasciando spazio ad un iniziale, timido ed incerto si. Un si verificato quotidianamente nella preghiera, diventato sicuramente più corposo».

Un "si" che si è poi trasformato in entusiasmo, lo stesso che traspare dal tuo sguardo.
«Considero questo entusiasmo, che umanamente è tale, grazia di Dio. Una delle mie fissazioni nel mio ministero sacerdotale è aiutare gli altri a fare discernimento, la cosa più difficile, ma anche la più quotidiana, visto che ogni giorno siamo costretti a scegliere, dal ragazzo che deve scegliere cosa indossare alla casalinga che deve scegliere cosa cucinare. Uno dei criteri del discernimento, specificatamente del discernimento ignaziano, è la verifica continua e costante dei pensieri e delle emozioni. Non vado in Africa perché il Signore mi ha parlato, perché il Signore mi è apparso, né tanto meno la Madonna. Ho detto "si" all'Africa perché è stato un pensiero che mi ha fatto dormire sereno, risvegliare sereno e mi ha fatto fare tutte le azioni quotidiane con una forza incredibilmente grande. Questo è stato il primo ambito di verifica continua e costante».

Nonostante la gioia, però, non mancheranno le difficoltà, legate anche ad una preparazione spirituale e pratica che durerà diversi mesi.
«Faccio un piccolissimo passo indietro. Quando sono diventato prete, il 1° luglio 1995, lasciai come letture quelle di quel giorno, proprio per affidarmi a quella Parola che era forse da sempre pensata per me. In quel Vangelo, forse una delle pagine più dure del Vangelo di Luca, c'era la frase di Gesù "Chi mette mano all'aratro e poi si volge indietro non è adatto per il regno dei cieli". Sto vivendo questi giorni con questo atteggiamento: non sto guardando minimamente indietro. Guardo avanti, anche se non so verso dove. Non sto guardando quello che lascio, sto cercando veramente quello che voglio trovare, che è innanzitutto la volontà di Dio nella mia vita. La preparazione è relativamente lunga, io dico spesso, molto scherzosamente, saranno pure africani ma non sono certo stupidi. Non possiamo andare lì senza alcuna motivazione profonda. Con me ci sarà anche don Domenico Savio Pierro, un giovane sacerdote di 28 anni. La nostra sarà una preparazione remota: da settembre saremo a Verona per sei settimane in un centro di cooperazione missionaria della CEI, che si occupa della formazione dei preti Fidei Donum. Dopo faremo tappa per almeno un paio di mesi in Inghilterra per una full immersion nella lingua inglese. Dopo le vacanze di Natale, i primi tre mesi del 2015 coincideranno con il nostro primo approccio con la realtà dell'Uganda e con la lingua locale».

Hai già visto la realtà ugandese: cosa ti aspetti di trovare lì che non hai già potuto guardare nel tuo primo viaggio?
«Ti assicuro che quando guardo le foto che porto sempre con me sul cellulare e arrivo alle fotografie di Pajule, dove è stato ucciso ed è sepolto padre Raffaele, comincio a pregare per i volti che vedo, perché quelli sono i miei prossimi parrocchiani. È bellissimo, pur nell'estrema crudeltà della povertà in cui si trova quella terra. Il sud dell'Uganda è più avanzato, ma il nord è più arretrato e povero. Nonostante una realtà poverissima, c'è una semplicità e uno splendore negli occhi di quella gente che mi fa vivere l'impressione di incontrare una chiesa giovane, fortemente motivata. Giovane non soltanto per l'età anagrafica, ma soprattutto per lo spirito entusiasta nel seguire e ascoltare la parola del Signore, nel formarsi e prepararsi nonostante le asperità della vita di ogni giorno».

Non hai mai provato paura per l'avventura che stai per affrontare?
«Considerando la storia, in questo momento non ho minimamente paura. Grazie a Dio, lì la guerra civile è finita nel 2006. Ci sono tutti i postumi della guerra, tra cui gli orfani e l'Aids seminato dai ribelli. Queste sono le primissime difficoltà che troveremo. Non ho paura, ma in questo momento mi accompagna uno stato di grazia che non mi fa pensare alle difficoltà. Mi sto interrogando continuamente su come posso prepararmi per servire quel popolo che il Signore, con mia grande sorpresa mi vuole affidare».

Sei sempre stato ben voluto dalla comunità, ma in questi giorni sta accadendo una vera e propria "rivoluzione". In tanti vorrebbero che tu rimanga qui. È bonario egoismo, ma simboleggia tutto l'affetto che Barletta ha nei tuoi confronti.
«Domenica scorsa, dopo che l'arcivescovo ha dato l'annuncio – ho voluto che fosse lui ad annunciare la mia partenza, perché non è un evento personale ma ecclesiale – mi ha poi passato il microfono e ho detto queste parole ai miei parrocchiani che erano sorpresissimi: "Perché don Vito se ne va? Primo motivo: don Vito se ne va per colpa vostra". Gli occhi si sono sbarrati, e tanti si sono chiesti cosa avessero fatto. In realtà ho detto loro: "Me ne vado per colpa vostra, perché mi volete troppo bene". E lì sono scoppiato a piangere, e con me tutti quanti. Voglio portare con me questo bene che mi è stato dato, e di cui mi sentivo profondamente inondato già prima, ora non ne parliamo, sono quasi soffocato da tutte le manifestazioni di bene provenienti da qualsiasi persona (ride ndr). "Il secondo motivo per cui vado via è stato per colpa sua (riferito al vescovo) perché lui mi ha proposto l'Uganda. In realtà è stato bravissimo, perché dopo avermi parlato la prima volta del progetto non è più tornato sull'argomento. Sono stato io a bussare alla porta del suo studio. Il terzo motivo per cui vado via – a questo punto alzai la mano verso il Cristo Crocifisso risorto che abbiamo in chiesa – è per colpa Sua, perché è Lui che mi ha messo questa inquietudine nel cuore e mi sta accompagnando in questi giorni". Gli attestati di stima, di affetto, di vicinanza sono tantissimi. In questo momento comprendo il giusto egoismo dei miei parrocchiani, che però stanno scorgendo la felicità che mi sta inondando. Mi dicono spesso "però, facci essere almeno un po' egoisti". Diciassette anni in una parrocchia sono davvero tanti. Dal 1° luglio 1997 sono a San Nicola, tra pochi giorni finisco 17 anni qui, ho anche superato la permanenza del parroco fondatore, don Michele Tatò. Diciassette anni sono stati importantissimi per me e per la vita della comunità cristiana, non solo nella costruzione della chiesa, ma soprattutto nella creazione di una vera e propria comunità, che sento vicinissima in questo frangente. Questi sono bellissimi momenti di prova per la parrocchia, che deve aprirsi allo slancio missionario e allargare il cuore facendolo battere con quello del mondo. Si passa dalle attestazioni dei più piccoli, fino a quelle dei più grandi, che mi ricordano certe cose che sono successe lungo l'arco di questi anni. Veramente, è tutta grazia di Dio».

Dopo tanti anni a San Nicola, arriva l'esperienza dell'Uganda: quale insegnamento hai potuto trarre da questa nuova opportunità?
«Quando sono diventato prete, mi sono convinto di una cosa: dovunque tu vada, occupati solo di seminare. Non pretendere di vedere i frutti. Il Signore, in questi diciassette anni, mi ha dato la possibilità di seminare tantissimo, ma – ahimè – anche la possibilità di raccogliere tantissimo. Il modo con cui mi presenterò ai miei fratelli è questo: voglio seminare, voglio essere la mano prestata a Dio per seminare il buon seme della Parola, l'incontro con Gesù Cristo in quella terra. Siccome so che chi fa crescere è il Signore Gesù, sono veramente fiducioso. Spero che questo seme porti frutto, non mi interessa di vedere i frutti con i miei occhi. Il Signore sa che può passare attraverso la mia persona e la mia testimonianza per portare qualsiasi cosa possa servire per il bene di quella gente».