Antonio Mazzocca: «La scienza e la tecnologia sono davvero la forza del Paese»
Intervista allo scopritore del meccanismo di proliferazione del tumore al fegato
martedì 10 febbraio 2015
10.42
Antonio Mazzocca, nato a Barletta, si è laureato in Medicina all'Università di Bari e ha conseguito il dottorato di ricerca all'Università di Firenze. Dopo aver lavorato negli Stati Uniti alla Harvard Medical School e alla Vanderbilt University svolge la sua attività di ricercatore presso l'Università di Bari e l'Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico "S. Debellis" di Castellana Grotte. Ha conseguito l'abilitazione scientifica nazionale come Professore in Malattie dell'Apparato Digerente, ed è membro dell'Associazione Americana per l'Avanzamento delle Scienze, dell'Associazione Americana per la Ricerca sul Cancro e della Società Italiana di Cancerologia. Le sue ricerche sono incentrate principalmente sulla comprensione dei meccanismi molecolari e cellulari alla base dello sviluppo cancro del fegato. Ha in passato identificato, clonato e caratterizzato una proteina solubile chiamata ADAM9-S che interviene nei processi d'invasività delle cellule tumorali ed è recente la scoperta di uno dei meccanismi proliferativi che sostengono la crescita dell'epatocarcinoma. Lo incontriamo nella nostra redazione per aprire una finestra su Scienza, Ricerca e Salute.
Prof. Mazzocca, il tumore al fegato o epatocarcinoma è una malattia spesso silente e multifattoriale: ma quali sono i principali fattori di rischio?
«Alle nostre latitudini (bacino del mediterraneo) e nel Sud-Est asiatico, il principale fattore di rischio è rappresentato dalla cirrosi epatica causata dall'infezione cronica da virus dell'epatite B (HBV) o da virus dell'epatite C (HCV). Per fortuna, l'introduzione del vaccino per l'epatite B divenuto obbligatorio in Italia nel 1991, proteggendo dall'infezione, ha ridotto questo fattore di rischio. Tuttavia, rimane l'infezione da virus dell'epatite C, per la quale non è disponibile ancora un vaccino. Va anche puntualizzato che non è detto che il soggetto che contrae questo virus sviluppi necessariamente una malattia cronica: può capitare che l'organismo riesca a controllare l'infezione grazie a un efficiente sistema immunitario (e questo accade più frequentemente in individui giovani e di sesso femminile). Accade però in una buona percentuale di casi che il sistema immunitario non ce la fa ad eliminare il virus, il quale albergando nel fegato, può portare nel tempo ad una infiammazione cronica dell'organo che noi chiamiamo epatopatia cronica HCV-correlata, condizione che oggi, grazie ai cosiddetti nuovi farmaci antivirali, si cura più efficacemente che in passato».
Come ci si accorge dell'insorgenza di questo cancro?
«Non è in realtà del tutto silenzioso, abbiamo mezzi per svelarne la presenza. In genere i pazienti con epatopatia cronica e con cirrosi epatica sono seguiti e monitorati nel tempo con controlli medici periodici: e questo è fondamentale. Disponiamo per esempio di un "marcatore" (ossia una spia nel sangue) impiegato per svelare la presenza dell'epatocarcinoma che è l'alfa-fetoproteina, proteina prodotta in condizioni normali solo durante la vita embrionale, ma che viene prodotta in elevate quantità in presenza di questo tumore. Ovviamente al dosaggio dell'alfa-fetoproteina, si affiancano altre indagini di laboratorio e strumentali come ecografia e TAC. Studi alla ricerca di altri marcatori sono in corso in diversi laboratori nel mondo».
Quanto incidono ambiente e nutrizione come fattori di rischio per l'insorgenza del cancro al fegato?
«Prima di rispondere facciamo delle stime. Alla fine del 2014 sulla rivista Cancer Research, è apparso uno studio previsionale che mostra quale sarà l'incidenza dei tumori più frequenti entro il 2030 negli Stati Uniti. Attualmente i quattro cosiddetti big killer sono il carcinoma del polmone, della mammella, della prostata e del colon. La stesso studio ha mostrato che la tendenza è in cambiamento per il 2030: se il cancro al polmone rimarrà comunque la prima causa di morte per cancro, quello della mammella e della prostata (seconda e terza) subiranno un calo dovuto alla aumentata prevenzione e alla diagnosi precoce. Purtroppo la previsione dice che questi due tumori saranno rimpiazzati da quello del pancreas e del fegato che diventeranno rispettivamente la seconda e terza causa di morte per cancro. Ecco perché sono richiesti da subito degli interventi sul piano sanitario per ridurre i fattori di rischio per questi tumori emergenti. Il fatto che l'epatocarcinoma è destinato ad essere la terza causa di morte per cancro è dovuto a nuovi fattori di rischio quali stili di vita non adeguati, errate abitudini alimentari, sovrappeso e obesità. Facciamo un esempio. Nel Nord Europa l'epatopatia cronica e la cirrosi epatica sono solitamente condizioni correlate al consumo di alcool rispetto ai virus epatici. Oggi, alla stregua dei paesi nordeuropei, il consumo di alcol sta aumentando anche nella nostra area geografica soprattutto tra i giovani e questo (già di per responsabile di epatopatia se protratto nel tempo), unito a errate abitudini alimentari (ad esempio un eccessivo consumo di grassi soprattutto di origine animale), predispone il fegato ad ammalarsi, indipendentemente dai virus epatici. E' quello che accade nella cosiddetta sindrome metabolica e nella steatoepatite non alcolica (NASH) in cui il fegato accumula il grasso in eccesso sviluppando nel tempo un infiammazione cronica. A questo si associa la condizione di aumento dell'insulina, non necessariamente legata al diabete, ma semplicemente all'errato regime alimentare. Se poi si associano più fattori di rischio ad esempio a un soggetto affetto da virus dell'epatite C, aggiungo alcool e sovrappeso, il rischio di sviluppare cirrosi e cancro aumenta significativamente. Altro fattore da considerare e che ci stiamo allontanando sempre di più dalla vera dieta mediterranea ed abbiamo oramai consolidato tra le nostre abitudini alimentari i cosiddetti fast food e junk food. Dunque, il controllo di fattori metabolici e alimentari sono fondamentali per la prevenzione di patologie croniche del fegato».
Prof. Mazzocca, ci parli dell'osservazione che ha portato alla scoperta del recettore LPAR6 come causa di proliferazione di questo cancro.
«Il tutto è partito dall'osservazione che l'acido lisofosfatidico o LPA, un fosfolipide sul quale stavamo lavorando, che funziona come un potente fattore di crescita cellulare, è prodotto e rilasciato in elevate quantità dalle cellule di cancro del fegato. Tuttavia, non sapevamo come funzionava, cioè a quale recettore si legasse sulle cellule per svolgere la sua azione. Quello che abbiamo scoperto è che il recettore di tipo 6 o LPAR6 è quello maggiormente espresso dalle cellule di cancro del fegato tra i diversi recettori che legano LPA. Quando LPA lega LPAR6 sulla superficie cellulare (è un pò come una chiave che per aprire riconosce la serratura), quest'ultimo trasmette all'interno della cellula un segnale di tipo proliferativo, per cui viene innescata una "moltiplicazione" di cellule tumorali. E' un meccanismo che noi tecnicamente chiamiamo "meccanismo autocrino" di autoregolazione».
Come vi state muovendo sul piano terapeutico?
«Adesso stiamo studiando come poter inibire LPAR6 e di conseguenza bloccare o rallentare il meccanismo di proliferazione tumorale. Le strategie possono essere di tipo biologico e farmacologico. Circa quelle biologiche, con tecniche di ingegneria genetica, abbiamo "silenziato" il gene che codifica LPAR6 nelle cellule di cancro del fegato e osservato che queste perdono o riducono la capacità di generare tumori quando inoculate nell'animale da esperimento. Per contro, quando abbiamo inserito il gene in cellule incapaci di generare tumori e che non esprimevano LPAR6, abbiamo notato una spinta a generare tumori da parte di queste cellule così modificate. Quindi, da un lato abbiamo silenziato il gene LPAR6 e dall'altro lo abbiamo espresso per capire il suo ruolo nelle cellule tumorali. Ora, silenziare il recettore è un'operazione possibile solo in modelli sperimentali di laboratorio; non è possibile da attuare nell'uomo. La mia idea è pertanto quella di creare delle molecole farmacologiche simili dal punto di vista strutturale all'LPA e vedere se alcune di queste hanno un effetto bloccante il recettore. Per sperimentare questo occorre naturalmente tempo e denaro».
Tagli alla ricerca: qual è la situazione nei laboratori?
«In Italia, come molti sanno, fare ricerca non è certamente facile. Vi è sia un problema di politiche che di sensibilizzazione pubblica all'argomento. Quasi tutti sanno che la percentuale di PIL che l'Italia investe nella ricerca è tra le più basse tra i paesi europei. Inoltre i soldi che si investono nella ricerca, oltre ad essere pochi, sono soggetti a un regime di tassazione secondo me ancora troppo alto. Altro ostacolo è rappresentato dall'eccesso e dalla lentezza della burocrazia problema molto sentito da chi fa ricerca in Italia perché rallenta molto l'attività stessa. Infine, credo che ci voglia più informazione ai cittadini su quelli che sono i successi e gli obbiettivi raggiunti dalla ricerca al fine di aumentare la sensibilizzazione e farne capire sempre di più l'importanza. Per esempio, negli Stati Uniti, se incontri qualcuno e gli dici che sei un ricercatore (soprattutto sul cancro) ti risponde semplicemente "grazie". E' un senso di gratitudine autentico che deriva della consapevolezza che la scienza e la tecnologia sono davvero la forza del loro paese. Infine, un'emorragia che andrebbe frenata nel nostro paese è il cosiddetto "brain drain" (fuga dei cervelli). E' davvero un peccato vedere tanti giovani già formati e preparati lasciare il nostro paese per andare a far ricerca all'estero. E' una doppia perdita: le menti brillanti e i soldi spesi da noi contribuenti per formare queste menti. Un vantaggio invece per i paesi che li accolgono che arruolano menti senza sostenere la spesa per la loro formazione».
Cosa pensa del pregiudizio sulla formazione negli Atenei del Sud?
«Beh, ogni pregiudizio ha la sua fondatezza quando la cronaca spesso riporta conflitti di interesse, nepotismo e baronie che ostacolano la meritocrazia che è alla base della alta formazione e di quella di capitale umano d'eccellenza. Anche se questi fenomeni non accadono solo nel Sud, ma un po' in tutte le Università italiane. Ma chi fa l'Università? Direi, gli uomini, che se capaci, coscienziosi e responsabili conferiscono valore alla Istituzione. Per esempio l'Università di Harvard, dove ho lavorato, fa una sorta di campagna-acquisti nel selezionare le menti migliori e investe su queste. E' un pò come una squadra di calcio che si prepara a vincere il campionato e cerca di accaparrarsi i calciatori migliori sul mercato. E' ovvio che puntare su cavalli di razza ti da la possibilità di rispettare sempre gli standard di eccellenza. E' questo che dovremmo fare nelle Università Italiane, a maggior ragione perché gestite con soldi pubblici provenienti da noi contribuenti. Assumere non meritevoli è controproducente per tutta la collettività, perché non ci sono ricadute in termini di sviluppo. Io nel mio piccolo, cerco di fare una "campagna acquisti" oculata nello scegliere giovani collaboratori. Se siamo attenti a questi aspetti ne trarremo vantaggio tutti noi come Paese».
Augurare buon lavoro a un ricercatore significa augurare a tutta la comunità una vita migliore; e allora Grazie e Buon lavoro.
Prof. Mazzocca, il tumore al fegato o epatocarcinoma è una malattia spesso silente e multifattoriale: ma quali sono i principali fattori di rischio?
«Alle nostre latitudini (bacino del mediterraneo) e nel Sud-Est asiatico, il principale fattore di rischio è rappresentato dalla cirrosi epatica causata dall'infezione cronica da virus dell'epatite B (HBV) o da virus dell'epatite C (HCV). Per fortuna, l'introduzione del vaccino per l'epatite B divenuto obbligatorio in Italia nel 1991, proteggendo dall'infezione, ha ridotto questo fattore di rischio. Tuttavia, rimane l'infezione da virus dell'epatite C, per la quale non è disponibile ancora un vaccino. Va anche puntualizzato che non è detto che il soggetto che contrae questo virus sviluppi necessariamente una malattia cronica: può capitare che l'organismo riesca a controllare l'infezione grazie a un efficiente sistema immunitario (e questo accade più frequentemente in individui giovani e di sesso femminile). Accade però in una buona percentuale di casi che il sistema immunitario non ce la fa ad eliminare il virus, il quale albergando nel fegato, può portare nel tempo ad una infiammazione cronica dell'organo che noi chiamiamo epatopatia cronica HCV-correlata, condizione che oggi, grazie ai cosiddetti nuovi farmaci antivirali, si cura più efficacemente che in passato».
Come ci si accorge dell'insorgenza di questo cancro?
«Non è in realtà del tutto silenzioso, abbiamo mezzi per svelarne la presenza. In genere i pazienti con epatopatia cronica e con cirrosi epatica sono seguiti e monitorati nel tempo con controlli medici periodici: e questo è fondamentale. Disponiamo per esempio di un "marcatore" (ossia una spia nel sangue) impiegato per svelare la presenza dell'epatocarcinoma che è l'alfa-fetoproteina, proteina prodotta in condizioni normali solo durante la vita embrionale, ma che viene prodotta in elevate quantità in presenza di questo tumore. Ovviamente al dosaggio dell'alfa-fetoproteina, si affiancano altre indagini di laboratorio e strumentali come ecografia e TAC. Studi alla ricerca di altri marcatori sono in corso in diversi laboratori nel mondo».
Quanto incidono ambiente e nutrizione come fattori di rischio per l'insorgenza del cancro al fegato?
«Prima di rispondere facciamo delle stime. Alla fine del 2014 sulla rivista Cancer Research, è apparso uno studio previsionale che mostra quale sarà l'incidenza dei tumori più frequenti entro il 2030 negli Stati Uniti. Attualmente i quattro cosiddetti big killer sono il carcinoma del polmone, della mammella, della prostata e del colon. La stesso studio ha mostrato che la tendenza è in cambiamento per il 2030: se il cancro al polmone rimarrà comunque la prima causa di morte per cancro, quello della mammella e della prostata (seconda e terza) subiranno un calo dovuto alla aumentata prevenzione e alla diagnosi precoce. Purtroppo la previsione dice che questi due tumori saranno rimpiazzati da quello del pancreas e del fegato che diventeranno rispettivamente la seconda e terza causa di morte per cancro. Ecco perché sono richiesti da subito degli interventi sul piano sanitario per ridurre i fattori di rischio per questi tumori emergenti. Il fatto che l'epatocarcinoma è destinato ad essere la terza causa di morte per cancro è dovuto a nuovi fattori di rischio quali stili di vita non adeguati, errate abitudini alimentari, sovrappeso e obesità. Facciamo un esempio. Nel Nord Europa l'epatopatia cronica e la cirrosi epatica sono solitamente condizioni correlate al consumo di alcool rispetto ai virus epatici. Oggi, alla stregua dei paesi nordeuropei, il consumo di alcol sta aumentando anche nella nostra area geografica soprattutto tra i giovani e questo (già di per responsabile di epatopatia se protratto nel tempo), unito a errate abitudini alimentari (ad esempio un eccessivo consumo di grassi soprattutto di origine animale), predispone il fegato ad ammalarsi, indipendentemente dai virus epatici. E' quello che accade nella cosiddetta sindrome metabolica e nella steatoepatite non alcolica (NASH) in cui il fegato accumula il grasso in eccesso sviluppando nel tempo un infiammazione cronica. A questo si associa la condizione di aumento dell'insulina, non necessariamente legata al diabete, ma semplicemente all'errato regime alimentare. Se poi si associano più fattori di rischio ad esempio a un soggetto affetto da virus dell'epatite C, aggiungo alcool e sovrappeso, il rischio di sviluppare cirrosi e cancro aumenta significativamente. Altro fattore da considerare e che ci stiamo allontanando sempre di più dalla vera dieta mediterranea ed abbiamo oramai consolidato tra le nostre abitudini alimentari i cosiddetti fast food e junk food. Dunque, il controllo di fattori metabolici e alimentari sono fondamentali per la prevenzione di patologie croniche del fegato».
Prof. Mazzocca, ci parli dell'osservazione che ha portato alla scoperta del recettore LPAR6 come causa di proliferazione di questo cancro.
«Il tutto è partito dall'osservazione che l'acido lisofosfatidico o LPA, un fosfolipide sul quale stavamo lavorando, che funziona come un potente fattore di crescita cellulare, è prodotto e rilasciato in elevate quantità dalle cellule di cancro del fegato. Tuttavia, non sapevamo come funzionava, cioè a quale recettore si legasse sulle cellule per svolgere la sua azione. Quello che abbiamo scoperto è che il recettore di tipo 6 o LPAR6 è quello maggiormente espresso dalle cellule di cancro del fegato tra i diversi recettori che legano LPA. Quando LPA lega LPAR6 sulla superficie cellulare (è un pò come una chiave che per aprire riconosce la serratura), quest'ultimo trasmette all'interno della cellula un segnale di tipo proliferativo, per cui viene innescata una "moltiplicazione" di cellule tumorali. E' un meccanismo che noi tecnicamente chiamiamo "meccanismo autocrino" di autoregolazione».
Come vi state muovendo sul piano terapeutico?
«Adesso stiamo studiando come poter inibire LPAR6 e di conseguenza bloccare o rallentare il meccanismo di proliferazione tumorale. Le strategie possono essere di tipo biologico e farmacologico. Circa quelle biologiche, con tecniche di ingegneria genetica, abbiamo "silenziato" il gene che codifica LPAR6 nelle cellule di cancro del fegato e osservato che queste perdono o riducono la capacità di generare tumori quando inoculate nell'animale da esperimento. Per contro, quando abbiamo inserito il gene in cellule incapaci di generare tumori e che non esprimevano LPAR6, abbiamo notato una spinta a generare tumori da parte di queste cellule così modificate. Quindi, da un lato abbiamo silenziato il gene LPAR6 e dall'altro lo abbiamo espresso per capire il suo ruolo nelle cellule tumorali. Ora, silenziare il recettore è un'operazione possibile solo in modelli sperimentali di laboratorio; non è possibile da attuare nell'uomo. La mia idea è pertanto quella di creare delle molecole farmacologiche simili dal punto di vista strutturale all'LPA e vedere se alcune di queste hanno un effetto bloccante il recettore. Per sperimentare questo occorre naturalmente tempo e denaro».
Tagli alla ricerca: qual è la situazione nei laboratori?
«In Italia, come molti sanno, fare ricerca non è certamente facile. Vi è sia un problema di politiche che di sensibilizzazione pubblica all'argomento. Quasi tutti sanno che la percentuale di PIL che l'Italia investe nella ricerca è tra le più basse tra i paesi europei. Inoltre i soldi che si investono nella ricerca, oltre ad essere pochi, sono soggetti a un regime di tassazione secondo me ancora troppo alto. Altro ostacolo è rappresentato dall'eccesso e dalla lentezza della burocrazia problema molto sentito da chi fa ricerca in Italia perché rallenta molto l'attività stessa. Infine, credo che ci voglia più informazione ai cittadini su quelli che sono i successi e gli obbiettivi raggiunti dalla ricerca al fine di aumentare la sensibilizzazione e farne capire sempre di più l'importanza. Per esempio, negli Stati Uniti, se incontri qualcuno e gli dici che sei un ricercatore (soprattutto sul cancro) ti risponde semplicemente "grazie". E' un senso di gratitudine autentico che deriva della consapevolezza che la scienza e la tecnologia sono davvero la forza del loro paese. Infine, un'emorragia che andrebbe frenata nel nostro paese è il cosiddetto "brain drain" (fuga dei cervelli). E' davvero un peccato vedere tanti giovani già formati e preparati lasciare il nostro paese per andare a far ricerca all'estero. E' una doppia perdita: le menti brillanti e i soldi spesi da noi contribuenti per formare queste menti. Un vantaggio invece per i paesi che li accolgono che arruolano menti senza sostenere la spesa per la loro formazione».
Cosa pensa del pregiudizio sulla formazione negli Atenei del Sud?
«Beh, ogni pregiudizio ha la sua fondatezza quando la cronaca spesso riporta conflitti di interesse, nepotismo e baronie che ostacolano la meritocrazia che è alla base della alta formazione e di quella di capitale umano d'eccellenza. Anche se questi fenomeni non accadono solo nel Sud, ma un po' in tutte le Università italiane. Ma chi fa l'Università? Direi, gli uomini, che se capaci, coscienziosi e responsabili conferiscono valore alla Istituzione. Per esempio l'Università di Harvard, dove ho lavorato, fa una sorta di campagna-acquisti nel selezionare le menti migliori e investe su queste. E' un pò come una squadra di calcio che si prepara a vincere il campionato e cerca di accaparrarsi i calciatori migliori sul mercato. E' ovvio che puntare su cavalli di razza ti da la possibilità di rispettare sempre gli standard di eccellenza. E' questo che dovremmo fare nelle Università Italiane, a maggior ragione perché gestite con soldi pubblici provenienti da noi contribuenti. Assumere non meritevoli è controproducente per tutta la collettività, perché non ci sono ricadute in termini di sviluppo. Io nel mio piccolo, cerco di fare una "campagna acquisti" oculata nello scegliere giovani collaboratori. Se siamo attenti a questi aspetti ne trarremo vantaggio tutti noi come Paese».
Augurare buon lavoro a un ricercatore significa augurare a tutta la comunità una vita migliore; e allora Grazie e Buon lavoro.