A quando "il diritto di tutti", per superare la differenza tra pubblico e privato?
Parlare di più di beni comuni per il bene comune. La questione non può ridursi all'acqua
domenica 11 marzo 2012
Con la vittoria referendaria, in Italia, i beni comuni, categoria politico-giuridica, sono usciti dagli spazi accademici, divenendo patrimonio di un'area politica, sociale e culturale, che potrebbe, addirittura, oltrepassare la sinistra tradizionale, mettendo in comunicazione sensibilità fra loro molto diverse, ma accomunate dall'esigenza di trovare una via d'uscita dalle conseguenze negative, prodotte dal capitalismo. Il successo politico del referendum italiano si riverbera sulla cultura critica, che, per prima, ha elaborato gli strumenti giuridico-istituzionali che il movimento per i beni comuni sta ponendo in opera. La riflessione torna perciò in sede accademica, arricchita di una nuova esperienza, per cui si devono affrontare nodi culturali molto difficili da sciogliere, connessi all'incompatibilità tra le concezioni radicalmente nuove, condivise dal movimento per i beni comuni e dalla cultura giuridica critica che lo sostiene. Le prassi di conflitto debbono continuare a essere il laboratorio fondamentale dell'emersione dei beni comuni e, certamente, la questione non può ridursi, per quanto centrale, all'acqua come bene comune.
E' doveroso evidenziare che i beni comuni, da cui si trae la soddisfazione dei propri bisogni di vita, sono stati, a partire dall'inaugurazione della modernità, i grandi perdenti dei processi sociali che hanno visto vincere l'alleanza fra lo Stato e la proprietà privata. Fondati su una concezione collettiva, i beni comuni sono stati privati di ogni forza normativa e di ogni protezione giuridica e costituzionale dal diritto occidentale. Nella tradizione liberale, il diritto è ridotto al mondo dell'io e delle sue aggregazioni contrattuali capaci di ricevere personalità giuridica, mentre il mondo del "noi" vive in una dimensione politica, incapace di tradursi in soggettività collettiva. Mettere i beni comuni sul tavolo della riflessione sull'esistenza o meno di un nucleo comune del diritto europeo significa lanciare una sfida alla cultura giuridica dominante e alle sue resistenti ed erronee certezze. Il diritto di tutti, nella nozione scandinava, consiste nel garantire l'accesso alla natura anche se è recintata, invertendo così la prospettiva giuridica tradizionale, per cui è il proprietario a dover provare, in modo convincente, le ragioni per le quali egli vuole escludere l'esercizio pubblico del diritto a quel fondamentale bene comune, che è la natura.
E' doveroso evidenziare che i beni comuni, da cui si trae la soddisfazione dei propri bisogni di vita, sono stati, a partire dall'inaugurazione della modernità, i grandi perdenti dei processi sociali che hanno visto vincere l'alleanza fra lo Stato e la proprietà privata. Fondati su una concezione collettiva, i beni comuni sono stati privati di ogni forza normativa e di ogni protezione giuridica e costituzionale dal diritto occidentale. Nella tradizione liberale, il diritto è ridotto al mondo dell'io e delle sue aggregazioni contrattuali capaci di ricevere personalità giuridica, mentre il mondo del "noi" vive in una dimensione politica, incapace di tradursi in soggettività collettiva. Mettere i beni comuni sul tavolo della riflessione sull'esistenza o meno di un nucleo comune del diritto europeo significa lanciare una sfida alla cultura giuridica dominante e alle sue resistenti ed erronee certezze. Il diritto di tutti, nella nozione scandinava, consiste nel garantire l'accesso alla natura anche se è recintata, invertendo così la prospettiva giuridica tradizionale, per cui è il proprietario a dover provare, in modo convincente, le ragioni per le quali egli vuole escludere l'esercizio pubblico del diritto a quel fondamentale bene comune, che è la natura.