A Piazza Pulita le 5 stelle diventano più nere
Le pessime figure destinate sempre a Barletta: grazie Sindaco. Salviamo l'innocenza dela Sacra Memoria dei lutti!
sabato 10 marzo 2012
11.51
"Il briccone sa voltare le cose come se la vittima fosse stato proprio lui: ragazzo mio, sapessi com'è la vita" (Adorno, Minima moralia). Si potrebbe riassumere così l'ennesima pessima figura della città di Barletta. Ancora una volta su una rete televisiva nazionale, La 7. Ancora una volta sul tema del lavoro nero. La puntata di giovedì scorso di Piazza Pulita ha dedicato un lungo servizio a Barletta e alle condizioni di lavoro delle operaie del settore tessile. Il servizio si apriva con l'inaugurazione del consorzio 5 stelle di cui anche la nostra testata ha dato notizia nelle settimane passate. Ed è proprio il presidente del consorzio 5 stelle a creare in questo caso maggiore imbarazzo alla città.
Mentre il giornalista [Luca Rosini, nella sua inchiesta barlettana coadiuvato dalla redazione di Barlettalife ndr] con una telecamera nascosta e con la complicità di una ragazza si recava nei laboratori per carpire dettagli su paga, contratti e condizioni di lavoro, il "simbolo" della lotta al lavoro nero invia un sms per allertare i colleghi imprenditori. Colto in fallo, il furbetto nega, ritratta, e alla fine si lancia nel trito canovaccio sul costo del lavoro come causa del lavoro nero, del "tengo famiglia", del "portare il pane a casa". Non è il caso di crocifiggere la goffaggine di Di Palma. Piuttosto questo ennesimo triste episodio dimostra quanto a fondo sia penetrata una ideologia feroce, cinica, camuffata da luogo comune, da buon senso. Questa ideologia racconta che il lavoro nero è elemento ineliminabile dell'economia. Che è colpa del costo (sempre troppo alto) del lavoro regolare se gli imprenditori sono costretti a ricorrere a lavoratori irregolari. Ci racconta che l'imprenditore è un primus inter pares, è un operaio anche lui e non gli si debbono attribuire colpe e responsabilità. Questa ideologia lascia ai grandi marchi, anche a quelli barlettani, la possibilità di ragionare di grandi fatturati, di investimenti in pubblicità sulle reti televisive pubbliche e private. Lasciamoli lavorare.
A Roma o a Milano decideranno per quante decine di migliaia di euro vestire Belen o le veline di Striscia la notizia. Per la produzione invece ci sono solo due strade: la Cina o la China Town barlettana. Ma quando si solleva per un secondo lo sguardo fuori da questa ideologia, da questa narrazione trucida, la vita vera si presenta in tutta la sua forza dirompente. Il lavoro nero non è lavoro. Per ricominciare a parlare di lavoro, bisogna bonificare la palude, estirpare questa mala pianta. Mai più a un sindaco o un imprenditore deve essere permesso di sminuire la gravità dello sfruttamento, della mancanza di sicurezza e delle garanzie elementari in cui vivono tante nostre operaie. Si chieda ai grandi marchi di operare essi stessi un controllo sulla qualità del lavoro. Se il lavoro nero è considerato un ammortizzatore sociale, significa che una enorme questione sociale cova sotto le ceneri. Si mettano al lavoro: sindacati, imprenditori e amministratori locali. Si studi una exit strategy. Dalla tragedia 3 Ottobre è emerso un chiaro messaggio: senza regole, senza rispetto delle regole, tutto crolla e si semina morte. Sarebbe ora di prenderne atto.
Mentre il giornalista [Luca Rosini, nella sua inchiesta barlettana coadiuvato dalla redazione di Barlettalife ndr] con una telecamera nascosta e con la complicità di una ragazza si recava nei laboratori per carpire dettagli su paga, contratti e condizioni di lavoro, il "simbolo" della lotta al lavoro nero invia un sms per allertare i colleghi imprenditori. Colto in fallo, il furbetto nega, ritratta, e alla fine si lancia nel trito canovaccio sul costo del lavoro come causa del lavoro nero, del "tengo famiglia", del "portare il pane a casa". Non è il caso di crocifiggere la goffaggine di Di Palma. Piuttosto questo ennesimo triste episodio dimostra quanto a fondo sia penetrata una ideologia feroce, cinica, camuffata da luogo comune, da buon senso. Questa ideologia racconta che il lavoro nero è elemento ineliminabile dell'economia. Che è colpa del costo (sempre troppo alto) del lavoro regolare se gli imprenditori sono costretti a ricorrere a lavoratori irregolari. Ci racconta che l'imprenditore è un primus inter pares, è un operaio anche lui e non gli si debbono attribuire colpe e responsabilità. Questa ideologia lascia ai grandi marchi, anche a quelli barlettani, la possibilità di ragionare di grandi fatturati, di investimenti in pubblicità sulle reti televisive pubbliche e private. Lasciamoli lavorare.
A Roma o a Milano decideranno per quante decine di migliaia di euro vestire Belen o le veline di Striscia la notizia. Per la produzione invece ci sono solo due strade: la Cina o la China Town barlettana. Ma quando si solleva per un secondo lo sguardo fuori da questa ideologia, da questa narrazione trucida, la vita vera si presenta in tutta la sua forza dirompente. Il lavoro nero non è lavoro. Per ricominciare a parlare di lavoro, bisogna bonificare la palude, estirpare questa mala pianta. Mai più a un sindaco o un imprenditore deve essere permesso di sminuire la gravità dello sfruttamento, della mancanza di sicurezza e delle garanzie elementari in cui vivono tante nostre operaie. Si chieda ai grandi marchi di operare essi stessi un controllo sulla qualità del lavoro. Se il lavoro nero è considerato un ammortizzatore sociale, significa che una enorme questione sociale cova sotto le ceneri. Si mettano al lavoro: sindacati, imprenditori e amministratori locali. Si studi una exit strategy. Dalla tragedia 3 Ottobre è emerso un chiaro messaggio: senza regole, senza rispetto delle regole, tutto crolla e si semina morte. Sarebbe ora di prenderne atto.